Tra le Scrittrici Maledette: Sylvia Plath

Articolo di Letizia Falzone

La scorsa settimana abbiamo parlato della bellissima Anne Sexton, questa volta parliamo della sua più cara amica.

Sempre sospesa tra luci ed ombre. Tra entusiasmo e depressione. Tra voglia di vivere e desiderio di morire. Così trascorse la sua breve esistenza Sylvia Plath, poetessa statunitense che morì suicida a soli 30 anni.

Fu sua madre a farla innamorare perdutamente della poesia, ma sarà solo il padre – un entomologo di origine tedesca morto precocemente e improvvisamente quando Sylvia ha solo otto anni – l’unico vero destinatario delle sue struggenti poesie. Che scrisse fino all’ultimo giorno della sua vita.
Anche con la madre ebbe un rapporto epistolare, ma che si limitò ai racconti della sua vita nei momenti in cui era lontana: la sua quotidianità, l’eccellenza negli studi, persino i suoi corteggiatori, che mai le mancarono. Ma mai qualcosa di profondo, qualcosa di intimo. Il loro scambio restò superficiale.

Sylvia Plath, vivrà la sua intera esistenza con l’ossessione per la morte del padre, e fin da bambina, sarà per sempre attratta dal buio, dai suoi fantasmi, dalla morte.
Valvola di sfogo di questa situazione insostenibile a livello famigliare diventa la scrittura. E non è un caso che Sylvia Plath sia un talento letterario precocissimo: pubblicò la sua prima poesia all’età di soli otto anni. 

Nel 1950 ebbe la prima di una lunga serie di crisi depressive. Risale ai quei tempi, il primo e purtroppo non unico, tentativo di suicidio che la porterà ad essere ricoverata in un istituto psichiatrico.

Nel 1956 sposa Ted Hughes. I due hanno una forte attrazione fisica, ma a unirli non è solo quello: condividono un amore profondo per la poesia.
Sylvia non ebbe mai dubbi sulla loro vita insieme: avrebbero scritto, si sarebbero sostenuti, avrebbero creato la famiglia perfetta, lei sarebbe stata una grande poetessa e scrittrice, lui il più grande poeta di lingua inglese del mondo.
La vita quotidiana si gioca sempre sul filo della competizione e dell’invidia. Tanto Hughes attinge a piene mani dai sogni per scrivere, tanto per lei la scrittura sarà una lotta con un demone contrario, che sempre le sibila all’orecchio l’inadeguatezza delle sue parole. Ma Sylvia studia con accanimento, si esercita, legge e confronta i propri versi con quelli dei poeti che più ama. 

Tra 1958 e il 1959, a Boston, durante il prestigioso seminario di Lowell, Sylvia conosce Anne Sexton.
Stessa generazione, stessa nazione. Stesso destino. Stessa rabbia, stesso vaneggiare, delirare, stesso scervellarsi sul perché di quella stessa campana di vetro. Medesimo sentire. Medesimo mezzo di urlare quel sentire, attraverso la stessa malattia, aggrappandosi ad una macchina da scrivere.
Per Anne, così come per Sylvia, i versi in metrica sono lo strumento per trasformare i traumi della mente e dell’anima in momento di congiunzione perfetta tra la psiche e la poesia.

Nei loro incontri si confrontano sulle comuni esperienze di ricovero, sui rispettivi tentativi di suicidio e sugli atteggiamenti personali verso l’arte. Le due poetesse tuttavia sono caratterizzate da personalità e condizioni diverse.
Anne che a differenza di Sylvia non soffriva di depressione, cadeva in trance per ore, si imbottiva di psicofarmaci ed era vittima di un etilismo devastante.
Sylvia timida, insicura, perennemente in difficoltà economiche, Anne, invece, era una vera poetessa vamp, sempre chic, accuratissima nel trucco, vestiva di rosso e tacchi a spillo, costantemente seguita da uno staff di collaboratori, tra l’infermiera, la governante, la segretaria. Nelle sue apparizioni pubbliche, che venivano pagate a peso d’oro, arrivava sempre in ritardo, barcollante, e già si capiva il suo stato, lanciava le scarpe al pubblico a procedeva nella lettura delle sue opere con voce sensuale.

Quello tra Sylvia Plath e Ted Hughes non fu invece un rapporto felice, ma anzi tormentato e ambiguo.
Mentre Ted andava sempre più spesso a Londra per partecipare a presentazioni e reading radiofonici, Sylvia viveva la vita della casalinga di campagna che le andava sempre più stretta. Un giorno in preda alla gelosia più feroce, arrivò a distruggere il manoscritto delle poesie e la copia annotata dei sonetti di Shakespeare del marito, che tardava a tornare dalla città
La lontananza, e qualche distrazione di lui, portò la coppia a entrare in crisi. Una crisi nera dalla quale è impossibile uscire.
Nel 1961, Sylvia abortisce. Ma non si tratta di un aborto naturale: il marito l’ha picchiata fino a farla abortire. La perdita del figlio, anche se causata da lui, li allontana sempre di più. Lei sprofonda nella disperazione, lui comincia a guardarsi sempre più intorno e si innamora di Assia Wevill. Sylvia lo caccia di casa.

Il dolore che sta provando, però, sembra stimolare la sua creatività. Proprio in quegli anni, la Plath scrive alcune tra le sue poesie più belle, oggi raccolte in “Ariel”.
Dopo la separazione Sylvia andò a vivere a Londra con i figli: in quel periodo scrisse molte delle sue poesie più famose, ma ebbe anche grandi difficoltà economiche. Aveva due bambini molto piccoli di cui prendersi cura da sola, che quell’inverno, particolarmente rigido, erano spesso malati. In mezzo a questi problemi, Plath ebbe nuovi episodi depressivi .

Un mese dopo la pubblicazione de La campana di vetro, sembra una giornata come tante. Sylvia si alza di buon mattino, va nella camera dei figli e spalanca la finestra. Apparentemente senza nessun motivo. Poi entra in cucina, prepara la colazione per i figli. Pane burro e marmellata. Mette in tavola due tazze di latte, lo zucchero, i cucchiai e i tovaglioli.
Apre il primo cassetto della credenza, prende lo scotch, chiude la porta della cucina e la sigilla. Scrive l’ultima poesia, “Orlo”, accende il forno a gas e infila la testa dentro. Probabilmente, Sylvia non voleva suicidarsi, ma quello era l’ultimo tentativo di attirare l’attenzione su di sé, un modo per ottenere un po’ di amore; un’estrema richiesta d’aiuto che disgraziatamente fece fiasco.

La morte prematura di Sylvia spinse il mondo a rivalutare il suo talento letterario, non altrettanto apprezzato quando lei era ancora in vita. Solo con il tempo è stato riconosciuto ed è stata finalmente identificata come una delle più profonde e intense poetesse del suo tempo, nonché come una scrittrice tanto abile quanto sferzante con le sue parole.
Lo dimostra l’assegnazione postuma del premio Pulitzer nel 1982 per “Tutte le poesie”, raccolta che comprende il suo intero corpus poetico.

Nonostante le dispute su meriti e colpe nella relazione tra Plath e Hughes e le zone d’ombra di entrambe le versioni raccontate, resta il sentimento forte e travolgente che li ha uniti e non hanno saputo domare: un amore che si fonde con la competizione e lo stimolo intellettuale e che ha finito per essere schiacciato tra le personalità geniali e complesse di entrambi. Con la sua potente e affascinante tragicità, l’amore tra Plath e Hughes ha contribuito a rendere indimenticabili e quasi “mitiche” due figure della letteratura Novecentesca che hanno vissuto la vita e i sentimenti intensamente, forse troppo.

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