Tra le scrittrici maledette: Sibilla Aleramo

Articolo di Letizia Falzone

La vita di Sibilla Aleramo è la schiusa di un bruco ansioso di diventare farfalla.
Rina Faccio in arte Sibilla Aleramo, nasce ad Alessandria il 14 agosto del 1876 e, ancora bambina, si trasferisce con la famiglia a Milano, dove compie la sua formazione.

I primi anni della vita trascorrono però a Civitanova Marche, dove Rina, maggiore di quattro figli, vive nell’assenza della madre Ernesta e vicinissima al padre Ambrogio, un ingegnere che le trasmette il suo ateismo e che resterà un modello di riferimento.

Un padre, amato molto dalla figlia, in modo esagerato, a tratti edipico, e una madre invece sottomessa al marito e profondamente infelice, afflitta da una depressione che la porterà al tentato suicidio e poi all’infermità mentale.

Sibilla ammira il sorriso trionfante del padre, la testa fiera ed eretta. Ne descrive minuziosamente i tratti e le movenze, creando profonda fascinazione per lui.
La madre è sempre più sconvolta dalla gelosia, diviene folle.

Sibilla la vede, sempre più pallida ed emaciata, spegnersi in manicomio dopo una vita sottomessa. L’aveva vista elemosinare briciole di amore, sacrificare se stessa alla cura dei figli.

Anche nel rapporto tra Sibilla e suo padre qualcosa si spezza. Scopre l’adulterio del genitore che tanto amava, con un’operaia della sua impresa, per altro. Ecco che si presenta per lei la prima grande delusione. Sibilla ha quindici anni e questa grande delusione, questa caduta di stima e perdita di un grande punto di riferimento, diventa una tragedia nella sua vita. Sente il padre debole e uguale a chiunque. Percepisce se stessa come sola e abbandonata.

Dopo, di delusioni, ne arriveranno altre. Subito accade qualcosa di terribile e ineluttabile. Un dipendente del padre, un impiegato, abusa di lei. Questo abuso interrompe l’adolescenza di Sibilla. L’uomo, per riparare al danno, la chiederà in sposa. Si tratta di un matrimonio riparatore, senza l’ombra del sentimento, da parte di entrambi. Appena sedicenne Sibilla è affidata, abbandonata a costui. Inizia la tragedia silenziosa di una sposa infelice. 

La scoperta della maternità sarà centrale in questa storia. La scoperta di una nuova vita dapprima le appare spaventosa e terribile, tra le preoccupazioni sull’avvenire, sulla propria capacità di essere madre. Ma poi accetta il suo futuro, la stessa malinconia, la possibilità di dare la vita. Così riesce a conferire un senso al suo matrimonio.

Ma la nascita del bambino non migliora le cose. Quando si ritrova soffocata da un matrimonio umiliante, dopo avere ingerito laudano, a un passo dalla fine, decide di ribellarsi. L’uomo che l’aveva prima stuprata e poi portata all’altare che la soffocava per addomesticarla, non meritava il suo sacrificio. Non era solo violento, era ottuso e pavido. Il che, per Sibilla, era molto peggio.

Viveva in un labirinto costruito apposta per lei, una donna dallo spirito guizzante rinchiusa e vigilata da un marito sadico e violento. Unico sollievo è la scrittura. Così rinunciò a tutto, anche al figlio tanto amato, pur di salvare se stessa e diventare quello che voleva essere: una persona libera.

A partire dal 1897 inizia a collaborare con vari giornali e riviste, dalla “Gazzetta letteraria” a “L’Indipendente”, dalla rivista femminista “Vita moderna” al periodico di ispirazione socialista “Vita internazionale”. Il suo impegno si rivolgeva soprattutto alle battaglie per l’emancipazione femminile. 

Sibilla decide dunque per il divorzio e si lega a una figura di intellettuale riformista, Giovanni Cena, che vive a Roma, dove l’autrice si trasferirà. A costo di una grandissima perdita, separarsi dal figlio, che il marito le vieta di portare con sé, Sibilla riuscirà ad andar via da quella casa, da quella illusione di famiglia che per lei è solo una prigione. È una scelta sofferta, dolorosissima ma necessaria per ricominciare a sentirsi viva. Scelta che non le verrà mai perdonata dalla gran parte del mondo letterario femminile, Grazia Deledda prima tra tutte. Il figlio le scrive delle dolcissime, quanto disperate, lettere, in cui le chiede di tornare con lui, di tornare a prenderlo e portarlo con sé, le dice che tutti parlano male di lei, che tengono a impedire categoricamente il loro incontro.

A trent’anni prese in mano la sua vita e al fianco di Cena crebbe dal punto di vista sociale e letterario, e fu qui che iniziò a scrivere “Una donna”, con uno stile dannunziano. Un libro apertamente scandaloso, la prima opera letteraria a mettere in discussione la dedizione materna. Il romanzo piombò sulla scena con la forza spudorata di un’autobiografia. Senza mai fare nomi (i personaggi sono sempre chiamati con il loro ruolo: marito, madre, figlio) denunciava la condizione delle donne e rivendicava la parità tra i sessi. Il successo fu immediato. Se ne parlò in Italia e anche fuori, se ne parlò a lungo. Venne definito il primo libro femminista in Italia, anche se non sempre le femministe amarono la sua autrice.

Sibilla amava il talento, s’infiammava per poeti, scrittori e artisti, prendeva ciò che voleva, non chiedeva altro che istanti di passione. Anche quando facevano male e bruciavano di follia. Del resto l’amore, come recita il titolo di un altro suo libro “Amo dunque sono”, è sempre stato l’unico punto fermo di una vita vorticosa, lo strumento con cui prendeva possesso del mondo e di se stessa. Ogni storia era un diluvio di passione, e di lettere, carte, appunti. Senza nascondere nulla, anche a costo di confondere lettori e critici. In molti la giudicavano. Ma lei nulla, fedele solo a se stessa.

Dopo la fine della storia d’amore con Giovanni Cena, intraprese diverse relazioni con i maggiori intellettuali italiani: Vincenzo Cardarelli, Clemente Rebora, Giovanni Papini, Umberto Boccioni, Salvatore Quasimodo.
Tra i numerosi amanti di Sibilla si conta pure una donna, la scrittrice Lina Poletti, cui furono dedicate le “Lettere a Lina” e parte del romanzo “Il passaggio”.

Tanti amori, nessun amore. Un’immediata indagine psicologica induce a
pensare che la leggerezza del suo comportamento era data dall’affetto perduto del padre e la disperazione segreta per non aver più rivisto il figlio.
Uomini, tanti uomini, giovani, molto giovani. Fragile donna mai stata consapevole del suo valore, anima dai sentimenti confusi, nel desiderio sconnesso nascondeva la privazione di una vita normale.

Come membro della sezione romana dell’Unione femminile nazionale, si impegnò per istituire scuole serali femminili  e scuole festive per contadini di entrambi i sessi e fece parte del Comitato per l’istruzione delle popolazioni nel Mezzogiorno costituito dopo il terremoto del 1908. 

A partire dal 1910 inizia un periodo molto intenso per la Aleramo, segnato da viaggi e nuovi amori. Durante gli anni della Prima Guerra Mondiale conosce il suo grande amore, lo scrittore Dino Campana, un poeta vittima della sua sensibilità, oppresso da problemi psichici.

Inizia una relazione passionale e burrascosa. Per lei il poeta improvvisò i suoi versi più belli. Il carteggio tra i due fu pubblicato sotto il titolo “Un viaggio chiamato amore. Lettere 1916-1917”.
Dieci anni di meno di quella donna tanto bella, tanto desiderata dagli uomini. Il loro è un rapporto tormentato, lei ha già avuto tante relazioni con i più famosi intellettuali del tempo, lui è divorato dalla gelosia resa ancor più esasperata dalla malattia mentale che lo accompagna da quando aveva 15 anni.

Dopo pianti, slanci e ardite riconciliazioni la passione tra Aleramo e Campana si spense, fu un amore che giunse quasi a sfiorare la follia come disse la stessa Sibilla. Il loro amore si concluderà tragicamente un anno prima dell’internamento dell’autore dei “Canti orfici” nell’ospedale psichiatrico di Villa di Castelpulci, nei pressi di Scandicci. 

Lei non si fermò più. Incapace di sostare a lungo nella stessa città, continuò a lottare in una infinità di modi diversi contro la società repressiva, la famiglia autoritaria e per la liberazione della donna. A 53 anni, famosa letterata, giornalista, femminista, pacifista e socialista, si rivolse a Mussolini. Per fame. Viveva in una soffitta gelida di via Margutta, i lettori e i critici l’avevano abbandonata. Eppure, indomabile, chiese di essere nominata membro dell’Accademia d’Italia. Lui rifiutò ma poi le concesse un piccolo aiuto economico. Andò avanti così, alla meno peggio, per una quindicina di anni. Poi scoppiò la guerra e paralizzata la voce poetica, iniziò ad annotare nei diari le morti e le distruzioni. Maturò così la scelta politica che la porterà nel 1946 a chiedere la tessera del Partito comunista: si era incendiata di una nuova passione, questa volta politica.

Forse il fascino che la sua figura emana ancora adesso, oltre sessant’anni dopo la sua morte, deriva proprio da questo: non tanto dal suo femminismo precoce, ma dal suo essere sempre padrona delle proprie scelte.

Visse ostinatamente, cocciutamente, passionalmente all’estremo limite tra letteratura e vita. Amò senza misura, ma fu sempre padrona di se stessa e invitò le donne, tutte le donne, a fare altrettanto. Fu la prima donna, a inizio Novecento, a rivendicare il diritto di una donna di dire “Io” attraverso la scrittura. Emanava quel fascino che aveva colto così bene Montale, dopo la sua morte, definendolo “fermezza”; era quello il suo segreto. O forse lo scandalo di una vita pienamente. vissuta.

Sibilla Aleramo si spense nel 1960, all’età di ottantatré anni in una clinica romana, povera, ma ostinatamente libera. E con lo sguardo nobile di chi è stata padrona del proprio destino. Ai lettori il lascito dell’opera più importante, quell’immenso diario che scrisse ininterrottamente dal 3 novembre 1940 al 2 gennaio 1960, e migliaia e migliaia di carte.

“Ho fatto della mia vita – scrisse nel suo diario – come amante indomita, il capolavoro che non ho avuto così modo di creare in poesia”.

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