Tra le Scrittrici Maledette: Marina Cvetaeva

Articolo di Letizia Falzone

Marina Ivanovna Cvetaeva nasce a Mosca l’8 ottobre 1892. Suo padre,Ivan Vladimirovic è un filologo e storico dell’arte. Sua madre, Marija Mejn, una pianista di talento.
Trascorre l’infanzia in un ambiente ricco di sollecitazioni culturali. A soli sei anni inizia a scrivere poesie.
Durante l’adolescenza, Marina rivela un carattere autonomo, ribelle e anticonformista. È una ragazza capricciosa ma dotata di un’intelligenza vivissima.
Allo studio preferisce intense e appassionate letture private: Goethe, Dumas, Heine.

Nel 1909 si trasferisce da sola a Parigi per frequentare lezioni di letteratura francese alla Sorbona. Il suo primo libro, “Album serale”, pubblicato ne 1910, conteneva le poesie scritte tra i quindici e i diciassette anni. Il libretto uscì a sue spese e in tiratura limitata, ciò nonostante fu notato e recensito da alcuni tra i più importanti poeti del tempo, come Gumiliov, Briusov e Volosin. Fu proprio quest’ultimo a introdurla negli ambienti letterari. Nella casa-convitto di Volosin frequentata da letterati, Marina all’età di diciassette anni, incontra Sergej Efron di un anno più grande di lei, che sposerà contro il volere paterno. Il loro è un amore che danza sulle montagne russe della sottomissione e dell’infedeltà. Marina lo tradisce con il cuore, con il corpo con la mente, ma restando sostanzialmente a lui e al sodalizio fedele. Un paradosso questo matrimonio precocissimo per una che aveva già donato tutta la vita alla poesia, sino a diventare una delle icone del ‘900.

Nel 1912 nasce la prima figlia Ariadna. Nel 1916 il poeta Osip Mandel’stam si innamora perdutamente di lei dedicandole alcuni dei suoi migliori versi. Il rapporto si esaurisce però rapidamente. 

Nel 1917 nasce Irina. Questo è l’anno dell’inizio della Rivoluzione che porterà alla caduta dell’impero zarista e all’ascesa dei bolscevichi guidati da Lenin e Trockij. Marina si trova da sola con due figlie, senza un lavoro, con un marito arruolato, in una città in preda a una terribile carestia. Si ritrova costretta pertanto a lasciare le figlie in un orfanotrofio, e la più piccola Irina, muore due anni dopo per denutrizione.

Quando la guerra civile finisce, la Cvetaeva riesce a rientrare in contatto col marito ed a raggiungerlo. Nel maggio del 1922 emigrano a Praga dove vivono serenamente fino al 1925. Nel febbraio 1923 nasce il terzo figlio, Mur. Nell’autunno del 1925 si spostano a Parigi, dove trascorrono i successivi quattordici anni. A Parigi Marina vive poveramente, facendo anche la domestica, isolandosi progressivamente data la scarsa accoglienza dei suoi scritti da parte dell’ambiente culturale francese che tenderà ad emarginarla dai circoli letterari.

Intreccia delle intense relazioni epistolari e spirituali con Boris Pasternak (futuro premio Nobel per la Letteratura) e Rainer Maria Rilke. Soprattutto con Pasternak, la scrittrice crea un rapporto quasi amoroso e di reciproco rispetto, nonostante non si fossero mai incontrati: tanto simili nell’animo anarchico, tanto comprensivi l’uno con l’altro e tanto indigesti ai bolscevichi per la loro diversità, rei di una infrazione intollerabile: quella di esprimere le proprie opinioni.

Negli anni dell’esilio la Cvetaeva viene dimenticata dal mondo della cultura sovietica. A causa della povertà e dal malessere crescente giorno dopo giorno, inoltre, la produzione artistica della poetessa è assai limitata.

Nel 1939 arriva il beneplacito dei servizi segreti sovietici che le permette di far ritorno in Russia dopo tanti anni di lontananza. Ma è solo un’illusione. Nonostante alcuni vecchi amici e colleghi scrittori venissero a salutarla, capì in fretta che per lei in Russia non c’era posto nè vi erano possibilità di pubblicazione. Le furono procurati dei lavori di traduzione, ma dove abitare e cosa mangiare restavano un problema. Gli altri la sfuggivano. Agli occhi dei russi dell’epoca lei era una ex emigrata, una traditrice del partito, una che aveva vissuto all’Ovest e questo era un marchio infamante: tutto questo in un clima in cui milioni di persone erano state sterminate senza che avessero commesso alcunché, tanto meno presunti “delitti” come quelli che gravavano sul conto della Cvetaeva. L’emarginazione, dunque, si poteva tutto sommato considerare il minore dei mali.
A pochi mesi dal suo ritorno il marito e la figlia vengono arrestati. Sergej ai lavori forzati viene fucilato mentre Ariadna rimarrà in carcere per otto anni.

Marina si ritrova da sola col figlio che ormai la odia in quanto la vede solo come un ostacolo e decide di allontanarsi dal centro della guerra. In uno stato di totale miseria e abbandono, in preda alla disperazione, una domenica salì su una sedia, rigirò una corda attorno ad una trave e si impiccò. Lasciò un biglietto, poi scomparso negli archivi della milizia. Nessuno andò ai suoi funerali, svoltisi tre giorni dopo nel cimitero cittadino, e non si conosce il punto preciso dove fu sepolta.

Marina Cvetaeva è la poetessa russa che d’amore riempì la sua vita e i suoi versi. È proprio intorno all’Amore che è ruotata la sua vita e la sua poesia. Amore ma soprattutto dolore, dato che la sua esistenza è stata contrassegnata anche da tanta sofferenza.

Con il suo “passo di cometa”, Marina Cvetaeva ha attraversato anni tra i più bui della storia russa. La sua poesia è passione e tempesta, è musica vertiginosa, proprio come la sua vita, segnata dalla rivoluzione, dalla morte della figlia, dalla povertà, dall’isolamento, ma anche da amori totalizzanti e da incontri di anime, come quelli, sublimi, con Pasternak e Rilke. Una vita segnata soprattutto dall’esilio, reale e psicologico.

Tutta la sua vita e tutta la sua poesia furono una sfida lanciata alla consuetudine, al perbenismo, alle forme accettate, un’impresa protratta di rivolta e di coraggio e, spesso, di oltraggio: anche verso se stessa ancorché perseguitata dal destino. Nelle sue opere troviamo diverse tematiche: la contemporaneità e la storia (pensiamo alle poesie dedicate alla presa di Praga e dell’Austria da parte dei nazisti), la filosofia; ma anche motivi classici, folklorici, popolari; infine motivi più intimi, più personali. La Cvetaeva affronta quindi temi universali che la rendono sempre attuale.

Il suo rapporto con questa forma d’arte è costituito, quindi, da un legame fortissimo, in cui ha un ruolo fondamentale il lettore. Egli deve “sforzarsi” di capire la poesia partecipando attivamente alla lettura e dando il suo contributo, “concreando” insieme all’autrice. Marina Cvetaeva conosceva il proprio valore, i meriti, la potenza del talento, il senso del dovere e la brama incontenibile di esprimersi. Non aveva bisogno di gloria, ma cercava comprensione, e non ne era mai sazia. Qualcuno che capisse nel profondo quella non-vita, e la lodasse, la mettesse in salvo. 

Dai suoi versi emerge l’amore per la poesia, poesia che è vita; del resto, scriveva: “Se là (in Russia) non potrò scrivere, mi ucciderò”, e così purtroppo è stato. Dopo la sua morte fu tenuta al bando per altri vent’anni. Il suo grande amore per la poesia l’ha portata fino a noi nella sua dimensione più assoluta di una delle voci più grandi della letteratura russa del Novecento.

Gli ultimi versi scritti da Marina Cvetaeva compongono il quadro finale della tragedia di una grande donna che con lucidità attraversa un inferno in vita e consegna all’abisso la terribile eternità delle sue parole, che per noi saranno sempre poesia.

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