Tra le scrittrici maledette: Anne Sexton

Articolo di Letizia Falzone

Sono passati duecento anni dalla nascita di Charles Baudelaire (1821-1867), poeta, critico e traduttore francese, antesignano del simbolismo e pietra miliare dei “Poètes Mauditst” – i poeti maledetti.

Il poeta maledetto, inteso come figura profondamente tragica che ricerca una pace interiore che non può trovare, e per questo costretto a spingere all’estremo i propri limiti, è il punto cardine del pensiero romantico, e a questo appellativo risponderanno, chi più, chi meno consapevolmente, artisti giganteschi che dominano il panorama artistico di quegli anni.
I testi di questi artisti sono di difficile lettura, inquietanti, con elementi lontani dal vivere comune.

Se per ciò che riguarda gli uomini sono tanti i nomi che ci vengono in mente pensando ai “maledetti” : Verlaine, John Keats, Edgar Allan Poe, Guy de Maupassant, non è altrettanto immediato e semplice stilare un elenco di scrittrici e poetesse.
Ne ho però trovate sette. Sette vite tormentate, spesso in bilico tra arte, solitudine e pazzia.

Se chiedi a un giovane scrittore perché scrive, le risposte più probabili che riceverai saranno qualcosa tipo “scrivo perché devo”, “scrivo perché sento il bisogno di farlo”, o forse la peggiore di tutte, “scrivo per non impazzire”. Una poetessa, però, scriveva veramente per non impazzire: a una seduta, lo psicanalista le aveva passato foglio e penna suggerendole di racchiudere i suoi pensieri depressivi, maniacali, bipolari, sotto forma poetica. Subito lo guarda male, aveva appena finito un incarico come modella, e gli risponde che l’unica cosa in cui sarebbe stata brava era prostituirsi. Poi ci prova, le piace e fa domanda per iscriversi a un seminario di poesia tenuto dal celebre poeta Robert Lowell, sicura però che non avrebbe apprezzato le sue poesie e che sarebbe rimasta a casa a piangere per giorni interi. Invece, Lowell le risponde che i componimenti che gli ha mandato gli piacciono molto, che anzi la invidia e la accetta nel corso.

Lei è Anne Gray Harvey, una ragazza di buona famiglia e ultima di tre sorelle. Nasce il 9 novembre 1928 a Newton, nel puritano New England.
In quel sedicente paradiso della Middle Class, intriso e odoroso di bigottismo misto a conformismo, si manifesta, in realtà, tutta la tragedia di un’infanzia contrassegnata dalla profonda esperienza di essere indesiderata dai quei genitori perfettamente alto-borghesi. Quei genitori belli, colti, amanti degli eventi mondani, indulgenti con se stessi. Una madre, in realtà, non madre. Mary, assente, glaciale, arrampicatrice sociale, denigratoria e scoraggiante in ogni parola e gesto verso la figlia. Ralph, così bravo nella produzione della lana, lo era altrettanto nell’eccesso di alcol e nell’eccesso di varie forme di violenza sulla “sua” Anne.  Abusata fisicamente, sessualmente, sentimentalmente, mentalmente, 

È bella, Anne, e sembra sicura di sé: in realtà il suo equilibrio è superficiale, la sua apprensione è mascherata. Frequenta scuole esclusive, ma decide di lasciare l’università. Si sente “chiusa a chiave nella casa sbagliata”.
I suoi genitori conducono una vita sociale di un certo livello ed entrambi bevono con grande disinvoltura. Anne stessa, da adulta, dice di riconoscere in sé le modalità da “ubriacona” della madre che aveva allegramente bevuto, come il marito, sino alla fine dei suoi giorni.
Il padre detestava Anne sino al punto di dirle che non reggeva la sua vista.

All’inizio dell’estate del 1944 Anne conobbe Kayo Sexton, si innamorò, fuggì con lui e lo sposò. La grande passione non le impedì, solo pochi anni dopo, di innamorarsi o di uscire con altri uomini. L’abuso di alcol e di psicofarmaci contribuivano ad acuire il suo temperamento irrequieto e il bisogno costante di novità. Nel 1953 nacque la prima figlia Linda Gray, nel 1955 nacque la secondogenita Joyce Ladd. Anne e Kayo a ventisette anni potevano dirsi realizzati, erano una bella e giovane coppia con prole. Ma era tutta lì la vita? Una sera del luglio 1956, dopo che Kayo e le bambine si erano addormentati, Anne, sentendosi sola e disperata più che mai, decise di uccidersi. Kayo la trovò in veranda, con la confezione delle pillole in mano, seduta nel buio. Venne ricoverata in tempo e si salvò.
Dopo essere entrata in cura con un nuovo psichiatra, Anne venne da lui convinta di possedere un talento creativo totalmente inespresso. Il medico le consigliò di scrivere e la Sexton si decise a farlo. Ci provò e vide che le veniva facile. Dopo alcuni mesi di scrittura compulsiva e di approvazione, sia da parte dello psichiatra che della madre, le tentazioni suicide riapparvero in Anne e la condussero a un nuovo tentativo il 29 maggio del 1957.
Anne Sexton si sente inadatta alla maternità, è depressa, non si cura della casa. La scrittura riesce a stabilizzare la sua mente, ma non solo, Anne Sexton ha talento e la sua crescita come poetessa è rapida e intensa. Vince una borsa di studio per il Radcliffe Institute nel 1961 e ottiene una cattedra. Vicina ai poeti Robert Lowell e Theodore Roethke, i temi che esplora sono la violenza contro le donne, ma anche la tossicodipendenza, la nevrosi e la follia.
La sua poesia è una carrellata di figure femminili sfortunate e tormentate, ispirate anche alla leggenda delle streghe di Salem. Le sue donne, nei componimenti, parlano in prima persona, si presentano, sovversive ed eccitate, oscure, che non molto possono fare per evitare la propria condizione marginale. Sono streghe che violano la sacralità della casa, streghe camuffate da casalinghe. Sono vulnerabili e dipendenti. Ci sono le tenebre, nella poesia di Anne Sexton, con scorci di luce come fiammate. Lei stessa è una strega tormentata.

La scrittura era per Anne l’unica ragione di vita e il luogo dove dare dimora alle sue capacità immaginative. La poesia le consentì di nascere una seconda volta, senza madre né padre, come una dea.

Nel 1958 il poemetto “La doppia immagine” viene pubblicato ed è proprio durante quei mesi, fondamentali per la costruzione della sua identità di poeta, che Anne incontra una giovane donna il cui destino, per certi versi, si snoda parallelo al suo: Sylvia Plath. 
Entrambe sono poetesse emergenti, entrambe sono donne estremamente ambiziose.
Capirono quasi subito che per perseguire i propri desideri avrebbero avuto bisogno di determinazione ed energia.
Per tutta la primavera del 1959, il martedì pomeriggio dalle 14 alle 16, la Plath e la Sexton condividono la stessa aula ai seminari di poesia di Robert Lowell. Ne nacquero insieme un’amicizia e una rivalità, fondate sul reciproco riconoscimento delle rispettive, grandi qualità letterarie. Anne veniva da un passato di “casalinga” dell’alta società che aveva deciso di lasciarsi alle spalle per seguire la propria vocazione. Sylvia era combattuta tra un fortissimo bisogno di maternità e l’altrettanto incontenibile desiderio di emergere, di essere riconosciuta e apprezzata come scrittrice. Cercavano ambedue di risolvere con la psicoanalisi i loro problemi, ed erano portatrici di una strabiliante vitalità, solo in apparenza contraddetta dalle pulsioni di morte che non di rado le visitavano.
Alla timidezza di Sylvia, insicura, insoddisfatta, in continua balia di crisi depressive, tribolata anche dalle preoccupazioni economiche, sopraffatta dall’ombra di Ted, trasandata spesso, vittima degli strascichi della sua campana di vetro, si contrapponeva l’etilismo di Anne, la sua perfezione nella cura dei dettagli del suo abbigliamento o del suo make-up, la sua sensualità, la sicurezza sfacciata dei suoi movimenti, dei suoi gesti sinuosi, dei suoi passi su tacchi alti e appuntiti in quella società di ipocriti artifici.

Due figure che proprio dalla poesia hanno incominciato, insieme, anche il loro folle e progressivo avvicinamento al suicidio.

Per tutta la sua vita, Anne, pazza e bellissima, ha provato a sopravvivere alla depressione ed ai pensieri suicidi. Ma è una battaglia impossibile, il suicidio sa impersonare magistralmente l’amico di cui ci si può fidare, per il quale ci si sente pronti a soffocare a mezzo del monossido di carbonio nel garage di casa.  E’ il 4 ottobre 1974. Addosso solo la pelliccia della madre, un’ultima vodka.
Non fu veleno quel monossido. Anne Sexton era già così inquinata, infettata, contaminata da così tanto tempo che quel gas fu solo la miccia per liberarsi da quel martirio straziante, ormai così ingombrante. Un fardello atroce che non poteva più sperare nemmeno nel sollievo della macchina da scrivere.

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