T(z)ár. O la musica del potere

T(z)ár. O la musica del potere

Articolo di Antonio Maria Porretti. In foto:” Cate Blanchett at the Berlin Film Festival 2020″ di Harald Krichel, in uso tramite licenza CC BY-SA 3.0, via Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Cate_Blanchett#/media/File:Cate_Blanchett-0546_(cropped).jpg

In realtà, il titolo dell’ultimo film di Todd Field è Tár: la zeta di Zar in parentesi nel titolo è dovuta a una mia libera associazione per assonanza e pertinenza fra il cognome della protagonista e la trapassata carica della Russia Imperiale. Infatti, è di potere che qui fondamentalmente si parla. Della sua natura più perversa; dei deliri di onnipotenza a cui conduce; delle manipolazioni e delle distorsioni che è in grado di operare sulla percezione della realtà; delle prevaricazioni che si compiono oltrepassando ogni limite di etica ed estetica. Il tutto solfeggiato dalla vigorosa bacchetta di Lydia Tár, direttore – come lei stessa desidera farsi chiamare – di una delle più prestigiose compagini orchestrali berlinesi. A questo punto occorre subito dire che se non si è più che amanti e appassionati di musica cosiddetta colta o classica, la durata di due ore e trentotto minuti della pellicola sgominerebbe ogni capacità di resistenza alla noia. Il ritmo si concede infatti un tempo lento, maestoso e descrittivo, tipico di un certo sinfonismo tardo ottocentesco di area germanica.

Così come occorre con altrettanta celerità precisare che si tratta di un film calibrato al fotogramma sulla sontuosità interpretativa di Cate Blanchett, qui alle prese con il ruolo che potrebbe rappresentare l’apice della sua carriera. Lo stesso regista ha più volte dichiarato che nessun’altra attrice avrebbe potuto interpretare un personaggio tanto complesso e controverso. Una persona, verrebbe quasi da dire, tale è l’impressione di sottofondo che esista davvero questa ex-allieva di Leonard Bernstein giunta ormai ai vertici della direzione d’orchestra, insegnante nelle più prestigiose accademie musicali, ossequiata e riverita da colleghi e dall’industria discografica. Non a caso ci viene presentata nel corso di una lunga intervista condotta da Adam Gopnik, famoso giornalista e commentatore del New Yorker che interpreta se stesso. Una incoronazione mediatica a tutti gli effetti, in vista dell’imminente uscita di un saggio da lei scritto, nonché della sua attesa esecuzione – e registrazione per la Deutche Grammophon- della Quinta Sinfonia di Gustav Mahler. Riguardo a questa sensazione di realtà, e per dovere d’informazione, non si possono ignorare certi evidenti parallelismi con la vita e la carriera della direttrice d’orchestra statunitense Marin Alsop: stesso percorso formativo, stessa scelta della qualifica al maschile per designare la sua conduzione musicale, traguardi artistici e professionali di pari livello e non per ultima, la sua omosessualità vissuta senza schermi o coperture di comodo.

Una scena dopo l’altra, veniamo a contatto con la vita privilegiata e rarefatta di Lydia Tár, tra aerei di prima classe, esclusive sartorie maschili per rifornire il suo guardaroba, ristoranti e alberghi di lusso, sale da concerto costruite nei materiali più pregiati e innovativi. L’appartamento che condivide con Sharon Goodrov, primo violino dell’orchestra che dirige (una magnifica Nina Hoss), rappresenta un compendio del più patinato radical-chic in circolazione. Successo, prestigio, denaro, si rivelano indispensabili corollari da utilizzare senza scrupoli, per consolidare e ribadire il suo status di autorità e comando. Che voglia attrarre e sedurre giovani musiciste in carriera, o ironizzare sulle preferenze di repertorio espresse da un suo allievo della Julliard, o affrontare una compagna di scuola della figlia adottiva Petra per porre fine ad atti di bullismo di cui è vittima – scena breve ma di capitale importanza nel mettere a fuoco la psicologia del personaggio che si presenta come padre – il modus operandi a cui ricorre, si conforma al codice di un patriarcato contro il quale lei per prima ha dovuto scontrarsi. Ed è questo, a mio avviso, l’aspetto più spiazzante e scomodo della pellicola, soprattutto in tempi di Me Too: mostrare l’asessualità di una certa concezione estremistica del potere, prima o poi destinato all’implosione e alla decadenza. Come non manca di accadere nemmeno in questa storia. L’impossibilità di procedere nella scrittura di una sua composizione, insieme alla perdita progressiva del dominio acquisito e al fallimento delle sue relazioni professionali e personali, sanciscono la condanna e l’ostracismo che come musicista e donna Lydia Tár dovrà affrontare.

Per concludere, un film che nonostante le inceppature in cui tende a bloccarsi, come il prolungamento a oltranza di una stessa frase musicale, che non fa nulla per piacere, né avvicinare il pubblico, distanziandolo (provocandolo?) invece ricorrendo a una fotografia dai toni gelidi, meriti comunque di esser visto per la tematica che presenta – e il dibattito che ne potrebbe scaturire. Qualcuno potrebbe trovarlo addirittura bernhardiano, nella scrittura delle sue immagini.

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