C’era una volta l’industria in Calabria. I falsi profeti e i dilemmi della crescita
Articolo di Guido Borà. Le idee sono qui espresse a titolo personale e non coinvolgono le istituzioni di appartenenza. Foto di Martino Ciano
“L’intervento straordinario è necessario fin quando l’economia italiana risulterà composta di due sistemi, caratterizzati da modelli di sviluppo diversi; ignorare e negare questo persistente dualismo significa conformare l’azione pubblica esclusivamente al modello del sub-sistema più forte, consumando così una sostanziale sopraffazione degli interessi del sub-sistema più debole”.
Pasquale Saraceno, Rapporto 1984 sull’economia del Mezzogiorno
C’era una volta l’industria in Calabria o, meglio, una volta in Calabria c’è stato il tentativo di insediare l’industria allo scopo di recuperare il gap economico con le altre Regioni. Lo sforzo, come vedremo, ha sortito solo in parte gli effetti sperati: pochi insediamenti, di breve o addirittura brevissima durata. La quota dell’industria nell’economia è, da sempre, inferiore al resto del Paese e dello stesso Mezzogiorno. Questi insediamenti – solo due dei tre qui riportati – nell’arco di un cinquantennio e più hanno generato ricchezza effimera nelle località dove sono sorti ma, allo stesso tempo, hanno lasciato un’eredità avvelenata; storie di danni alla salute, inquinamento dei terreni, lavoro tradito e spreco di denaro pubblico.
L’insediamento più longevo risaliva alla fine degli anni ‘20 del secolo scorso: la Pertusola, azienda italo-inglese specializzata in estrazione di minerali in Sardegna, aprì a Crotone uno stabilimento per la produzione di zinco elettrolitico, attività altamente energivora, incentivata dall’elettricità a basso costo resa disponibile dopo la costruzione nel 1924 di alcuni invasi idroelettrici sulla Sila. Con più di 900 addetti e 300 dell’indotto, raggiunti negli anni ‘70, la Pertusola Sud è stata l’industria più grande e importante della Calabria. Dopo alterne vicende e passaggi di mano, l’azienda ha chiuso i battenti nel 1999 lasciando un’eredità di inquinamento e morte: nel sito di bonifica di interesse nazionale (SIN Crotone-Cassano-Cerchiara), l’Osservatorio nazionale amianto ha da tempo riscontrato un incremento dell’indice di mortalità e delle malattie asbesto-correlate.
Un caso molto emblematico è rappresentato dalla Marlane, azienda che era arrivata a occupare quasi 1.200 addetti. Alla fine degli anni ‘50, l’industriale bresciano Stefano Rivetti, grazie ai finanziamenti a fondo perduto della Cassa per il Mezzogiorno (d’ora in poi Cassa), insediò il Lanificio R1 a Maratea, in provincia di Potenza. Qualche anno dopo, come costola dell’R1, furono avviati il Lanificio R2 e la Lini e Lane, rispettivamente a Praia a Mare e a Tortora in provincia di Cosenza. Alla fine degli anni ‘60 Rivetti, in difficoltà economiche, si liberò delle sue quote e gli stabilimenti passarono prima all’IMI, poi all’ENI/Lanerossi (quando lo stabilimento superstite di Praia a Mare prese la denominazione di Marlane) e, infine, alla Marzotto che nel 2004 ne decise la fine, delocalizzando l’attività nella Repubblica Ceca.
L’eredità degli stabilimenti calabresi è molto pesante perché si stima che più di centocinquanta dipendenti, ex dipendenti e familiari si siano ammalati gravemente e in gran parte deceduti. Al momento in cui scriviamo, nei processi intentati per le morti e l’inquinamento dei suoli sono stati assolti tutti gli imputati perché il fatto non sussiste e i terreni, inoltre, preda dell’incuria e di continui incendi dolosi, non sono ancora stati bonificati. Incessanti sono le denunce sul Blog che ospita questo articolo, il cui titolare è l’autore del disperato e intenso romanzo Oltrepassare: sullo sfondo delle vicende dei due protagonisti vi sono i veleni della Marlane e il tumultuoso sviluppo edilizio degli anni del boom economico. Il mix di una società senza regole e valori ha generato un deserto umano e uno straniamento irreversibile nelle generazioni più giovani lasciando senza speranza e senza salvezza chi è partito e chi è restato.
L’esempio più clamoroso di spreco di denaro pubblico, è stato la Liquichimica Biosintesi di Saline Joniche, costruita con i fondi del Pacchetto Colombo stanziati dopo i “moti di Reggio”, che chiuse dopo pochi giorni di attività perché il Ministero della Sanità aveva riscontrato la cancerogenicità dei mangimi che produceva. I circa 750 addetti furono messi in Cassa integrazione guadagni e molti di essi hanno raggiunto la pensione senza mai lavorare, grazie agli ammortizzatori sociali. La storia di questi tre grandi stabilimenti è emblematica: la Calabria si è dimostrata una regione poco attrattiva per gli investimenti industriali, anche durante la fase di maggiore attività della Cassa.
Tra il 1950 e il 1984 – anno di chiusura della legge speciale del 26 novembre 1955 n. 1177 recante: “Provvedimenti straordinari per la Calabria” – i finanziamenti industriali erano solo il 3,2% di quelli erogati dalla Cassa e dagli Istituti speciali e solo il 2,6% degli investimenti complessivi della Cassa a fronte del 7,4% delle richieste. Anche l’ammontare medio degli investimenti erogati è stato inferiore rispetto al fabbisogno delle domande ricevute: nei primi quindici anni della Cassa la media delle erogazioni era di settanta milioni di lire contro la media di duecento milioni per ciascuna domanda.
Nonostante la breve spinta, questi e altri interventi, per la maggior parte infrastrutturali – riforma agraria, strade, porti, bonifiche – hanno sortito effetti blandamente positivi. Nel 1951, il PIL pro capite della Calabria era il 47% di quello nazionale mentre nel 1971 il 67%, un recupero di 20 punti, spalmato nell’arco di un ventennio, che però si è fermato lì.
Al giorno d’oggi dell’industria è rimasto poco: secondo il rapporto annuale della Banca d’Italia sull’economia della Calabria del 2023, il 13,3,% del valore aggiunto 2021 è stato generato dall’industria, in aumento del 16,4% rispetto all’anno precedente – il settore è stato trainato principalmente dai bonus edilizi ma non è qui la sede per affrontare l’argomento – solo il 7,8% dall’industria in senso stretto e il 5,5% dal settore delle costruzioni e l’81,2% dal settore dei servizi; il settore primario ossia agricoltura, silvicoltura e pesca pesa per il 5,5%. Dal confronto con la media nazionale vi sono differenze significative: il settore primario nel 2021 pesava il 2,1%, l’industria, il 25,2% (industria in senso stretto il 20,6% e il resto le costruzioni) e i servizi il 73,1%.
La conoscenza puntuale della composizione settoriale e della corrispondente produttività del lavoro è fondamentale per misurare l’impatto di un settore produttivo rispetto all’altro, senza cadere in illusioni pericolose. Il valore aggiunto (miei calcoli su dati Istat 2021) per unità di lavoro dell’agricoltura è di 29.900 euro, dell’industria manifatturiera 84.500 euro e dei servizi di alloggio e di ristorazione, che sono parte integrante del cosiddetto settore turistico, 41.800 euro. Un’unità di lavoro, in termini relativi, produce il doppio di un’unità impiegata nella ristorazione e quasi tre volte di un’analoga in agricoltura.
Dopo la chiusura nel 1992 della stagione degli interventi straordinari è iniziata quella del sostegno delle aree depresse e, dal 1998, vi è stato l’ingresso dei fondi strutturali europei e il benchmark è diventato la media del reddito pro-capite degli stati membri, ma la tensione e la visione non del passato c’è più. Per rilanciare il Mezzogiorno, nel 2017, sono state istituite le ZES, Zone economiche speciali, di recente accorpate nella ZES unica, un tentativo, accolto favorevolmente dagli esperti, come segnale di un nuovo impegno per le politiche di viluppo che superi la retorica dei tanti Mezzogiorni, che ha contraddistinto in modo vacuo il dibattito degli ultimi venti anni.
Dopo questa rassegna sommaria è difficile, in conclusione, dare un contributo in un campo dove si è già scritto e detto tanto, di sicuro troppo, dove il disincanto prevale anche sull’abbozzo di un’idea di futuro. Nel nostro Paese, affitto da cronico presentismo, si guarda con diffidenza a qualsiasi innovazione e non si parla più di progresso – ormai divenuta una parola desueta. L’innovazione è da tempo subìta dall’esterno ed è accolta con le inevitabili resistenze mentre ulteriore immobilismo deriva da situazioni specifiche – si veda il proliferare del fenomeno del NIMBY. Quando ormai sono lontani i fasti del boom economico e restano, eredità dell’industria, solo morti, territori inquinati e rottami, quale idea di futuro abbiamo noi comuni osservatori, esperti, politici per l’Italia, per il Mezzogiorno, quale modello di sviluppo proporre, in particolare, per la Calabria una delle Regioni italiane più difficili?
Lo slogan degli ultimi 30 anni è stato “ci salverà il turismo”, il nostro petrolio, nel presupposto di disporre un inesauribile giacimento da sfruttare senza fatica. Un modello talmente radicato nell’immaginario italiano da far dimenticare che tutti i maggiori Paesi produttori di greggio, hanno assetti politici repressivi e iniqui, dove la ricchezza non è affatto diffusa mentre le destinazioni turistiche più popolari sono di solito i Paesi “poveri” in termini di reddito (Tailandia, Cuba, Oman). La fiera del luogo comune domina il dibattito pubblico: siamo il Paese più bello del mondo, con la concentrazione di opere d’arte maggiore di tutti, con una delle maggiori estensioni di costa, le nostre città sono ricche di storia e tradizioni, le Alpi e gli Appennini offrono panorami incantevoli e, poi, vuoi mettere la nostra cucina, come si mangia da noi, da nessuna parte…
Nel frattempo, i dati della produttività del lavoro parlano in modo chiaro e inequivocabile e se effettivamente il turismo sarà il modello prevalente, saremo destinati a una sudditanza economica verso quei popoli che, avendo investito sull’industria e sull’innovazione, avranno maggiori disponibilità di noi. Vi sarà, in alcune famose località è purtroppo realtà, un mercato turistico duale: il primo destinato ai turisti ricchi e il secondo destinato agli italiani che, non potendo frequentare quello dei ricchi, si dovrà accontentare di destinazioni minori, un modello distopico che non dovremmo voler desiderare così intensamente.