La strada, la realtà, la gloria e la fine del mondo in tasca
Articolo e foto di Martino Ciano
“Tutti vogliono possedere la fine del mondo”. Mi è sempre piaciuta la frase con cui si apre il romanzo “Zero K” di Don DeLillo. A tutti noi attribuisce la volontà di essere “inizio e fine di ogni cosa” o “misura valida per ogni evento”. Sensazione comune, onnipresente, che si manifesta davanti ai nostri occhi e che ci sospinge da quando ci alziamo dal letto.
Da manipolatori del senso delle cose, creiamo prima di tutto “significati” che sappiano rendere alla nostra portata le tessere del puzzle che estrapoliamo dalle esperienze quotidiane, affinché siano corrispondenti ai giudizi posti a priori. No, non siamo programmati per accettare la casualità, viviamo solo di causalità, e se qualcuno ci toglie la causalità, ossia la necessità di leggere tutto secondo i susseguirsi di “causa ed effetto”, ecco che o impazziamo all’istante o ci deterioriamo lentamente.
Si dice che “per vivere bene non bisogna aspettarsi nulla”, ma questo è impossibile. Per compiere un passo del genere, bisognerebbe mettere da parte gran parte dell’evoluzione, o della devoluzione, che l’uomo ha compiuto e che ha riversato nelle varie strutture e sovrastrutture sociali in cui si è ingabbiato. “Grandi aspirazioni, grandi delusioni”; e allora giù con distopie e utopie, due modi per manifestare artisticamente le nostre amarezze.
Così, delusi e consapevoli di essere figli di Dei imbecilli, i quali sono incapaci di creare perfezione – magari proprio loro sono in cerca di una utopica perfezione – ci incamminiamo con troppi pensieri e creiamo a “nostra immagine e somiglianza” un mondo deplorevole, con storture saldamente accettate e alle quali opponiamo fantasiose e immaginarie virtù sulle quali l’Universo piscia allegramente.
“La retta via”, “la giustizia”, “la continenza”, “l’umiltà”, “la bontà” e tutte le cose affini e contrarie… “mai nessuno che abbia messo in conto quanto sia sobrio e delicato darsi la pace con una damigiana di vino”, disse un giorno una persona che, in una torrida serata del luglio 2014, si fermò ad ascoltare i declamatori di un “messaggio di pace e amore”.
Questo mondo di opportunità dietro cui sprecare tempo, energie e pensieri sembra essere diventato l’unico scopo perseguibile. Impensabile la fine, insostenibile la finitudine e la stravaganza di tutti i significati creati. Impossibile che non ci siano valori su cui basare la propria esistenza, deleterio ammirare lo spazio che si apre davanti ai nostri occhi come qualcosa di inospitale.
La peggiore delle malattie è proprio la subalternità dimostrata nei confronti della strumentalizzazione dell’ottimismo. Ottimismo non è più sinonimo di vivere con propositività, ma solo di realizzazione, di successo, di famelico accaparramento. Siamo ideatori di progetti, di posti da occupare e da conquistare. Violenti ottimisti… liberi di divorare il prossimo, mentre lo releghiamo al nostro servizio.
La formula lapalissiana di questo circolo vizioso: sudditi che creano e pretendono sudditi.