Squid Game e la violenza multimediale
Articolo di Roberta Manfredi
“Squid Game”, la serie sudcoreana del regista Hwang Dong-hyuk, disponibile su Netflix dal 17 settembre scorso, è diventata certamente un cult generando contenuti paralleli dai Meme di Facebook ai video di parodia su Youtube.
Ad incrementarne la notorietà in Italia anche la polemica sollevata da diversi genitori, istituti scolastici e associazioni che, anche attraverso delle petizioni, hanno richiesto la rimozione del contenuto dalla piattaforma perché troppo violento.
Va detto che la nostra cultura non è nuova a fenomeni visivi intrisi di una certa cruenza, allusa o esplicita che sia, già a partire dalle arti figurative per arrivare al cinema; persino nella Commedia Dell’Arte, che si tende a ritenere un genere grottesco, forte della simpatia delle maschere, viene mostrato in scena il cadavere impalato dello zanni Buffetto nel terzo atto de “L’ateista fulminato”, rappresentato per la prima volta nel 1642 e contenuto nella raccolta di scenari “Ciro Monarca dell’Opere Regie”, in cui si può leggere «Olivetta domanda cosa è di Buffetto […] s’apre e si vede Buffetto impalato, poi si serra».
Nell’ambito dell’arte figurativa non va sicuramente dimenticato Paul Gauguin, il quale, durante la sua permanenza a Pont-Aven, dipinge “La visione dopo il sermone (La lotta di Giacobbe con l’angelo)”, in cui l’idea della violenza della lotta citata nel titolo è ben suggerita dallo sfondo rosso sangue, facendo ricorso a «un uso simbolico ed emotivo del colore» (C. Bertelli).
Siamo nel 1888, di lì a sette anni i fratelli Lumiere presenteranno al Grand café in Boulevard des Cappucines a Parigi un’invenzione destinata a cambiare la storia della comunicazione: il cinematografo, un’arte nuova che, nei suoi primi vagiti, ricorrerà spesso a quell’uso simbolico ed emotivo citato dal Bertelli per compensare proprio la mancanza di colore e sonoro. Esempio emblematico sono le sequenze riguardanti la strage di San Bartolomeo del kolossal di Griffith “Intolerance”, datato al 1916, sequenze di cui la pellicola era stata dipinta a mano di vermiglio proprio per sottolineare la violenza del tragico avvenimento storico.
Se resta iconica la scena con il fiume di sangue che esce dall’ascensore in “Shining” di Kubrick del 1980, bisogna tenere presente che già nel decennio precedente, in Italia, Dario Argento faceva un largo uso di questo elemento all’interno delle sue pellicole nelle quali i delitti avvenivano prevalentemente con armi da taglio, finendo col diventare precursore del genere splatter. Del resto negli anni ’70 in Italia aveva larga fortuna anche l’horror grazie ai nomi di Margheriti, Bava e Freda, cui molti colleghi statunitensi dichiareranno di essersi ispirati e tra essi anche Tarantino, vero e proprio emblema dello splatter già dal suo film d’esordio “Le iene” (1992), che potrebbe a sua volta aver ispirato Bong Joon-ho, pure lui sudcoreano, per la realizzazione del suo “Parasite”.
Quello di “Squid game” è però un caso diverso: non sono tanto le immagini, ma la situazione a colpire dritto allo stomaco dello spettatore, a renderne inquietante la visione, un po’ come succede per “Hunger games” in cui comunque viene mostrato molto meno sangue.
«Io riesco solo a pensare ai corpi malaticci dei bambini sul nostro tavolo da cucina e a mia madre che prescrive loro ciò che i genitori non possono dargli. Più cibo. Ora che siamo ricche gliene manda un po’ a casa. Ma spesso, ai vecchi tempi, non avevamo niente da offrire, e i bambini erano comunque troppo gravi per essere salvati. Mentre qui a Capitol City vomitano per il piacere di continuare a riempirsi la pancia all’infinito» scrive Suzanne Collins, adottando il punto di vista della protagonista Katniss, nel secondo libro della sua trilogia; una scena ripresa anche dalla pellicola di Gary Ross e a cui le sequenze dell’arrivo dei vip nella serie coreana sembrano un po’ strizzare l’occhio.
La tematica è sempre la stessa: la contrapposizione tra ricchi e poveri, tra sfruttatori e sfruttati, in una ferocissima critica sociale che apre gli occhi su quanta crudeltà l’essere umano possa riservare ai propri simili; solo che qui non siamo nel futuro lontano di Panem, con i suoi dodici distretti (più il tredicesimo che tutti credono raso al suolo) e Capitol City, questa è la Corea del 2021 e per quanto il concept dei giochi non sia ovviamente realistico, stiamo guardando una realtà vicina alla nostra che fa emergere un dato presente nella società globale del nostro secolo.
“Squid game” parla essenzialmente di prevaricazione (del ricco sul povero, del bullo sul più debole), mettendo a nudo e denunciando una prassi abituale del capitalismo, ci informa di cosa siano disposte a fare le persone portate sul punto della disperazione. Se in “Hunger games” non c’è scelta e i giocatori vengono selezionati attraverso un’estrazione e mandati a morte senza avere voce in capitolo a riguardo, in “Squid game” la maggioranza dei partecipanti decide di far terminare i giochi, ma poi vi fa ritorno comprendendo che la realtà esterna, quella che sono costretti a vivere ogni giorno, è di gran lunga peggiore.
Ad accentuare la crudezza del meccanismo denunciato in “Squid game” è la questione del gioco che stride con la violenza che viene qui mostrata, e se la Collins si ispirava all’idea del reality show, Dong-hyuk chiama in causa i giochi tipici dei bambini sudcoreani, inficiando metaforicamente e fisicamente l’innocenza dell’infanzia e sembra volerci suggerire che ciascuno di noi ha ucciso il bambino che è in sé per inseguire il dio denaro.
È quello che dichiara il vecchio sul finale: la corsa al denaro e al potere gli aveva tolto la capacità di divertirsi, capacità che i suoi amici paiono aver ritrovato nell’osservare il massacro, nel saggiare il potere che erano in grado di esercitare sull’umanità.
«Una tale ingiustizia che sacrifica a pochi i moltissimi è, eziandio, danno manifesto dell’intera società, perché riesce impossibile a’ null’abbienti ingegnarsi e ai troppo facoltosi manca lo stimolo per farlo; e crescendo così la disuguaglianza, corresi […] al deperimento, alla dissoluzione sociale. In una società ove la sola fame costringe il maggior numero al lavoro, la libertà non esiste, la virtù è impossibile, il misfatto inevitabile: la fame […] rivolg[e] la spada del cittadino contro i cittadini medesimi […]. La fame imbriglia il pensiero, aguzza il pugnale dell’assassino, prostituisce la donna. La società intera viene abbandonata al governo di coloro che posseggono ed il suo utile, la sua volontà, sarà sempre quella di cotesti pochi» (C. Pisacane).
In questi corsi e ricorsi storici, il medium televisivo ha oggi il merito di svelarci senza mezzi termini una crudeltà atavica che induce persino un uomo a rivolgere l’arma contro il proprio fratello, come un novello Caino, assassino per antonomasia, pur di mantenere la propria posizione, il proprio status. Ma nello svelarcelo ci porta inevitabilmente all’adozione del punto di vista dell’unico che in questo contesto non cede anche lui alla violenza, aggrappandosi piuttosto costantemente a un sentimento di profonda pietà verso il prossimo che lo conserva effettivamente umano: il protagonista Seong Gi-hun di fatto non uccide il vecchio nel duello con le biglie, né tantomeno vorrebbe farlo con l’amico d’infanzia Cho Sang-woo durante il gioco finale e non usa neppure i soldi del premio; dopo aver vissuto un’esperienza che lo ha inevitabilmente segnato, dopo aver conosciuto le motivazioni dietro di essa, non smette di avere fiducia nel genere umano: qualcuno arriverà sempre a portare a aiuto.
Ciò che vediamo in “Squid Game” dunque è essenzialmente una denuncia, non un invito all’emulazione: mette in mostra come ognuno di noi non dovrebbe mai essere, per farci capire, alla fine, che nonostante il dolore, la prevaricazione, la violenza, c’è ancora chi ha la forza di credere nelle bontà del proprio prossimo. Ed è a queste persone che noi dobbiamo assomigliare.