Splendori e miserie di una icona. Elfriede Jelinek e la sua “Jackie”
Recensione di Antonio Maria Porretti
Sei lettere; quelle del suo diminutivo che ha finito per soppiantare il suo nome. Bastano loro a evocare e in modo inequivocabile, una delle icone più rappresentative del XX secolo. Più controverse e discusse, tanto da mantenere e assicurarsi ancora oggi un posto di tutto rilievo fra quelle celebrità a cui la morte ha regalato solo altro futuro: J-A-C-K-I-E!
Dopo tutto, lo scopo di condurre una vita perennemente sotto i riflettori, al di là dei meriti e dei titoli per farlo, non è forse anche quello di continuare a vivere in assenza ?
Ed è proprio il vuoto, la mancanza, la perdita, il cardine intorno al quale si muove e aziona questo monologo scritto da Elfriede Jelinek nel 2002, pubblicato in Italia da La Nave di Teseo e tradotto da Luigi Reitani. Ossia, due anni prima del conferimento del suo Nobel e ben quindici anni prima che Pablo Larrain la riportasse sul grande schermo, con una interpretazione grandiosa di Nathalie Portman.
Secondo l’indicazione e nota di regia fornita dalla stessa scrittrice nella didascalia iniziale del testo, Jackie dovrebbe entrare in scena indossando un tailleur Chanel (non una copia) o in una alternativa di più facile attuazione – per un teatro che intenda portarlo in scena – un impermeabile, gli iconici occhiali scuri e un foulard di Hermès, trascinandosi dietro come in una sorta di tiro alla fune il carico dei suoi cari estinti, mentre regge la testa perforata con il sangue rappreso di J.F.K.
Per tutto il tempo, lei non dovrebbe che arrancare sul palco, tranne nei momenti previsti affinché riprenda fiato. Una perfetta sintesi allegorica della sua vita. È così che penetriamo nei pensieri e nelle memorie che intanto affiorano ed emergono dal labirinto della sua mente. Così incontriamo quella determinazione di fondersi e confondersi con il simulacro di se stessa da offrire in pasto al pubblico. Una icona vestita di abiti scelti con l’intento di apparire, mostrarsi, senza però farsi mai vedere.
È questa la condizione richiesta a chi voglia detenere il vero potere: rendersi invisibili anche in piena luce. Il tailleur rosa di Chanel macchiato di sangue è la riprova più valida di questo diktat: il mondo ricorderà per sempre l’immagine, non la donna. E non è da escludere la possibilità – o per meglio dire il dubbio – di trovarsi non in presenza di una figura umana, quanto di un’astrazione recante il peso dei suoi ricordi, e che siano loro i reali destinatari delle sue parole; quelle forse mai potute dire in vita.
Da un punto di vista di forma e struttura, il monologo rientra a pieno titolo nel canone dell’auto-confessione o dell’intervista impossibile, se si vuole. Con il suo eloquio da sovrana detronizzata e condannata all’esilio, Jackie trasforma quelle parole in cuciture del suo corpo, da rifinire sulla sua pelle. Sempre più caustiche, da indirizzare a quei Pensieri/Corpi che giacciono dietro, accanto e sopra di lei. Questa volta non ha intenzione di mentire; neppure a se stessa. Niente e nessuno viene tralasciato. Né la “povera” Marilyn, troppo fragile e ingenua per pensare di sopravvivere in quella Camelot degli inganni (leggi White House); né gli uomini e le donne di casa Kennedy, chi più chi meno tutti dipendenti da droghe e psicofarmaci; né la stupidità della povera gente che applaudiva a piena voce la favola della happy family.
Nemmeno il cancro che l’ha uccisa resta in ombra. Non c’è compassione; non c’è autocompassione. Vi è forse solo un’unica e possibile consolazione: la speranza di aver eseguito e condotto a termine una buona performance, malgrado tutto. E che sia almeno piaciuta a qualcuno.