Articolo di Gattonero. Foto di Martino Ciano
Gli anni passano, i ricordi no e questo è uno di quelli. Una mattina me ne andavo in auto sulla statale 106, direzione sud, verso un paese che quel giorno sarebbe stato oggetto della mia visita. In transito, proprio di fronte a uno degli alberghi in cui avevo soggiornato più volte, avevo visto in lontananza un agente di polizia che indicava di moderare la velocità. In terra, proprio di fronte al parcheggio dell’hotel, pezzi di plastica, di ferro, di lamiere; insomma, un incidente.
Non sono mai stato un patito degli incidenti stradali; nella folla di curiosi stronzi che guatano e commentano non mi vedrete mai. Avevo tirato diritto. Una mezz’oretta dopo, raggiunto il mio corrispondente, da questi mi ero fatto raccontare dell’incidente, di cui era bene informato, per filo, per segno e anche di più. La sera prima, un tizio aveva preso una stanza dell’albergo; aveva parcheggiato nell’ampio spiazzo di fronte alla scalinata d’entrata, e, dopo la cena, era salito a ramazzare in camera.
Dal racconto del mio corrispondente, che qui chiamerò Pino, avevo appreso che: a) l’oggetto della ramazzata era minorenne; b) lei era parente di qualcuno che non gestiva un’impresa di pulizie. Per far capire al ramazzatore che “queste cose non si fanno”, nella notte gli avevano messo un petardo sotto la macchina, collegato all’accensione. Due parole su Pino. Innanzitutto, era professore di matematica, insegnava alle scuole medie della cittadina. Lui era uno di quelli che i numeri li maneggiano a piacimento, col risultato sempre esatto. Tra i miei compiti istituzionali c’era la verifica della contabilità. Ma, non so perché, ogni volta che lo lasciavo, mi dicevo: “Tutto a posto, ma io so che mi ha di nuovo fregato! Non so dove, ma mi ha fregato ancora!”.
Quella sera Pino era passato a prendermi in albergo, mi aveva portato fuori città in un posto un po’ isolato, ossia in un ristorante che sembrava più una bettola. Somigliava a uno di quei locali che fanno la fortuna dei camionisti, o a quelle osterie che, al di là delle apparenze del locale, ispirano fiducia su quello che si va a mangiare. Verso la fine del pasto, dalla cucina era uscito un omone, con la casacca tipica dei cuochi, con sprazzi di bianco qua e là che indicavano il colore originario, ampiamente maculata da chiazze rosso sangue.
Aveva un’aria abbattuta, il viso emaciato, gli occhi lacrimosi. Riconosciuto Pino, si era seduto al nostro tavolo, per bere un bicchiere con noi, e chiaccherare… con Pino… poiché tra frasi in dialetto e occhi di pianto, non avevo potuto seguire più di tanto il suo piagnisteo. Però avevo intuito che aveva qualche guaio con la giustizia. La sua figura, così accasciata; il suo parlare quasi singhiozzante, mi avevano fatto pensare al poveraccio che, rubata una mela per fame, viene fagocitato negli ingranaggi di una giustizia che non lo molla più, quella che “la legge c’è e deve essere rispettata!”.
Tutti i professori, anche le più carogne, hanno un cuore (fino a prova contraria), e Pino quel cuore lo aveva in mano, consolava il derelitto, “tranquillo, vedrai che le cose si chiariranno, non ti abbattere”. Finita la cena, dopo lo sguanciamento di saluto tra i due, eravamo saliti in macchina per il rientro, io verso l’albergo, lui diretto a casa. Pino, dopo la messa in moto, e usciti di poco dall’aia dell’osteria, mi aveva detto: “Quello ha sulla coscienza almeno quaranta omicidi”.
Santa ingenuità, gli avevo detto: “Ma tu gli hai fatto coraggio, lo hai consolato”. Aveva inchiodato, le cinture all’epoca erano opzionali, e la mia fronte era arrivata a pochi centimetri dal parabrezza. Mi aveva guardato fisso: “Perché tu cosa gli avresti detto?”. Messa a mo’ di domanda, c’era una sola risposta: “Andiamocene, non vorrei che il detto arrivati a 29, facciamo 30 venisse aggiornato a 40, facciamo 41”. Chiamatemi coniglio, se volete, ma nell’albergo dell’addetto alle pulizie non ho più messo piede. In quell’osteria neanche.
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