La società della neve. Una storia vera al servizio dell’umanità
Recensione di Letizia Falzone. In copertina la locandina del film
Cordigliera delle Ande, 13 ottobre 1972.Q uel giorno inizia una storia di sopravvivenza tra le più inaudite dell’ultimo secolo.
Un Fairchild FH-227D della Forza aerea uruguaiana, partito da Montevideo per portare una squadra di rugby a Santiago del Cile, si schianta tra neve e ghiacci della Valle delle Lacrime, a 4 mila metri di altitudine, nel territorio del comune argentino di Malargüe. Dei 45 passeggeri, tra cui i giovani giocatori con amici e parenti, se ne salvano inizialmente 29.
I soccorsi latitano, depistati come sono dalle ultime ed erronee comunicazioni del pilota in balìa del maltempo. Nell’attesa i sopravvissuti tentano l’impossibile per resistere. Si rifugiano nella carlinga dell’aereo, aiutandosi e curandosi le ferite, usando indumenti estratti dalle valigie e stando uno addosso all’altro per non congelare nelle notti a meno 30 gradi. Dopo 11 giorni, per non morire di fame, si tormentano sulla scelta più estrema e disturbante: cibarsi dei corpi di chi non ce l’ha fatta, anche se il solo pensiero fa loro orrore e a pugni con l’etica e la religione, oltre che con lo stomaco. Alcuni arrivano a pronunciare una sorta di testamento biologico: il dono salvifico di sé agli altri nell’eventualità di morte. Eventualità che si fa certezza per altri 13, con l’arrivo di tempeste e valanghe.
Tre giovani della squadra di rugby, Canessa, Parrado e Vizintín dopo vari tentativi falliti partono il 12 dicembre per cercare aiuto. Il 23 dicembre Parrado e Canessa incontrano alcuni pastori che avevano già dato l’allarme. Alla fine, dopo 71 giorni, i sopravvissuti saranno 16.
“La società della neve” fin dal titolo aggiunge un livello di lettura, cioè come le persone possono riuscire a rimanere insieme in una condizione estrema e con il costante spettro della morte. Ne seguiamo le vite prima della partenza, ma poi, una volta passati attraverso la scena del disastro aereo (una delle migliori mai viste, capace di catturare il dolore fisico, la morte e le mille piccole conseguenze di un impatto simile), il film cerca di ricostruire questi personaggi da zero, come se dovessero assumere un altro ruolo in questa neonata società che ha il solo obiettivo di far sopravvivere tutti. L’unica possibilità è creare un universo parallelo, una società a parte in grado di gestire un nuovo ordine: la società della neve, appunto.
Questo film, che racconta una delle storie di sopravvivenza più forti ed emozionanti di sempre, è uno spettacolo per gli occhi ma anche una morsa al cuore. È un capolavoro cinematografico e pure l’esempio lampante che un film, per arrivare al cuore del pubblico, non deve solo raccontare una bella storia, ma permettere a ognuno degli spettatori di potersi immedesimare nelle paure, nello slancio vitale, nella rabbia o nella gioia di ognuno dei personaggi sullo schermo.
Gli articoli dell’epoca battezzarono i sopravvissuti “gli eroi delle Ande”, ma il film ne ha ricostruito con realismo i momenti più difficili, la fragilità, la disperazione. Le cure che avevano uno per l’altro. I tentativi di richiamare l’attenzione degli aerei che sorvolavano l’area. Il recupero della radio che funzionava solo in ricezione e dalla quale, 11 giorni dopo, hanno saputo che le ricerche erano sospese e che tutti loro erano dati per dispersi, come negli oltre trenta schianti precedenti sulla Cordigliera. È lì che la disperazione porta alla scelta estrema, l’unica che visivamente viene solo accennata ma emotivamente e spiritualmente è il cuore del film.
“La società della neve” riesce a toccare l’anima come pochi film riescono a fare e provoca un mix di emozioni, dalla tristezza alla gioia, dalla paura alla rabbia, dalla rassegnazione alla ribellione che, per quanto forti, vale la pena di vivere fino in fondo.
Un film che entra nell’anima, che nel suo essere crudo è di una tenerezza impressionante. È un film che mostra un’umanità senza precedenti e dimostra quanto, la vita, sia un dono prezioso per cui vale la pena combattere, fino alla fine e non solo per se stessi ma soprattutto per gli altri. Chi l’ha vissuta in prima persona questa tragedia se la ricorderà per sempre e chi ha visto “La società della neve” ricorderà per sempre l’emozione vissuta in sala o davanti alla televisione quando, alla fine del film, è impossibile riuscire a trattenere le lacrime e andare via senza avere il cuore spezzato in due.
È una potente riflessione sulla resilienza umana, che esplora la fratellanza, la solidarietà e la lotta per la sopravvivenza in circostanze estreme. Con immagini suggestive, una narrativa complessa e personaggi riccamente delineati, il film offre uno sguardo penetrante sulla condizione umana di fronte alla tragedia.
Le regole si riscrivono, l’unico obiettivo è il bene comune, l’amicizia, l’unione che rafforza. L’individualismo, ormai il mantra dei nostri anni specialmente sul grande schermo, crolla sotto il peso della tragedia.
Bayona non ha realizzato “solo” un film su un disastro, su una pagina nerissima di cronaca. Forse l’obiettivo era di indagare sulla forza dei legami, ragionare sul modo di aiutarsi l’un l’altro che fatica a realizzarsi. Nella disperazione ad alta quota, sotto le valanghe, a rinascere è proprio l’essere umano.
“Ho più fede di quanta ne abbia mai avuta, ma credo in un altro Dio. Da qui non si possono vedere le cose come prima. Credo nel Dio che Roberto ha in testa quando mi cura le ferite. In quello che ha Nando nelle gambe quando cammina instancabile. Credo nella mano di Daniel quando taglia la carne e in quella di Fito quando la distribuisce, senza dirci di chi fosse, perché possiamo mangiarla senza ricordare il loro sguardo da vivi. Credo in loro e nei nostri amici morti.”