Si chiamava Michelina, dieci anni fa…

Articolo di Gattonero

Era un grissino. Già quando l’avevo vista la prima volta mi chiesi come facesse a stare in piedi senza spezzarsi. Per occhi aveva due fanali, sempre spalancati. Quando una domanda, un argomento, un oggetto, la eccitavano, si illuminavano per un attimo, come gli abbaglianti all’interno di una galleria, o come quando si lampeggia a chi viene di fronte per segnalare la presenza di elementi pericolosi appostati lungo la strada.

Era uno scheletro rivestito di pelle. Si portava sempre appresso un cuscino, poiché sedersi sul duro era costringere le ossa del bacino a premere direttamente sulla pelle, dolorosamente. Camminando, talvolta dava l’impressione di brevissimi saltelli, ma di solito trascinava i piedi, attenta a non cadere o scivolare.

Aveva passato la vita intera tra ospedali, case di cura o di riposo. Non avevo potuto sapere se, in questo suo doloroso peregrinare, avesse mai provato qualche sprazzo di felicità. Però, a qualche ricordo del passato, un breve sorriso e il lampeggio degli occhi mi facevano ritenere che, sì, qualche attimo bello nella sua vita ci fosse stato. Forse.

Settant’anni: come capita sovente entrando in questa età, deve avere dato una ripassata alla sua esistenza, prendendo atto che i conti non tornavano. Lo sbilancio della sua vita era in rosso, profondo, insanabile. Aveva una voce adeguata al fisico, più il leggero miagolio di un gattino che il vocale di una persona. Quando si frequentano queste strutture, ai propri guai personali inevitabilmente si aggiungono anche quelli degli altri, in una specie di sostegno reciproco, una triste condivisione.

“Ciao, Michelina, come va?”, era la domanda di ogni giorno.<
“Come Dio vuo’… “, “abbastanza bene…”, “così così…”, erano le risposte che si alternavano, un giorno dopo l’altro.
Un “bene!” a tutto tondo non lo aveva mai detto, e mi sarei stupito se le fosse uscito sincero.

Aveva deciso di chiudere il suo libro mastro, ma non sapeva come fare. In una struttura assistita non ci sono ganci cui appendersi per il collo; non ci sono veleni, a parte quelli detti medicinali; non sono disponibili neanche sacchetti di plastica con cui soffocarsi; e la struttura è a un piano unico, piano terra, quei piani che se ti getti ti fai male, senza raggiungere lo scopo. Qui già la parola ‘libertà’ non può esistere, neanche come chimera; tanto meno la libertà di sentirsi addosso un peso troppo grande e di volersene liberare.

C’era uno spiraglio tra queste mura, e lei lo aveva adocchiato. Aveva deciso per un modo per farla finita, che sovente è messo in atto come segno di protesta (talvolta di ricatto): smettere di mangiare. Ai primi di aprile aveva iniziato il suo cammino su questa strada. Non erano serviti gli interventi della psicologa, dei medici, di chi quotidianamente veniva ad assisterla…

Aveva solo un fratello, lontano e con vita propria. Due sorelle, abitanti nella zona, si erano fatte carico di lei, e ogni giorno le portavano qualcosa per merenda, la facevano passeggiare, chiacchieravano con lei, le facevano passare un paio d’ore in compagnia, come fossero sue sorelle vere. Ogni tanto se la portavano a casa, per farle passare una giornata fuori da un ambiente che, pur ridotto come lo sono i muri di una casa, le desse l’idea di spazi infiniti in cui navigare. Libera…

Una quarantina di giorni era durata la battaglia per riportarla a pasteggiare o, comunque, per rimetterla in quella carreggiata che lei rifiutava. Fleboclisi, integratori, alimenti liquidi… tutto per sostenerla, con la speranza di un ripensamento. Quaranta giorni di lentissima agonia. Chi andava nella struttura in visita, chiedeva alle due sorelle acquisite o alle assistenti o alla psicologa notizie sulla sua situazione.

Nei primi tempi, ogni tanto spuntava un “mah, forse…”, che faceva seguito all’inattesa entrata nel suo corpo di uno yogurt o di un integratore. Ma ormai i segnali non erano più a parole, erano un allargare le braccia e alzare gli occhi al cielo. Camminava ancora, sostenuta per le braccia. La sua consistenza fisica era ridotta a una sola dimensione. La sera di un ultimo giovedì, aveva vinto la sua battaglia, abbandonando il campo di gioco.

Mi sarebbe piaciuto pensare che l’ultimo suo istante fosse stato dedicato a un sorriso, ma ci credevo poco: troppo faticoso. Credo invece in un ultimo lampo dei suoi fanali, a illuminare per l’ultima volta il lungo e triste tunnel della sua vita.

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