La scuola dei miei giorni felici

La scuola dei miei giorni felici

Articolo e foto di Martino Ciano

Fu questa la scuola dei miei giorni felici, circondata dagli ulivi, dal grano e dalla terra arata; cullata dal canto dei galli, dal grugnito dei porci, dal belare delle pecore, dal cinguettio dei passeri.

Il maestro con la fisarmonica, le lezioni del giovedì tra i campi, raccogliere un lombrico con la stessa delicatezza con cui si coglie una rosa, e non c’era paura o schifo nei nostri occhi, ché ci fu detto che persino un lombrico contribuisce alla sopravvivenza della nostra specie. Finito il temporale, aprivamo le finestre e il maestro ci faceva inspirare forte per gustare l’odore della terra bagnata, ché la pioggia è dolce e nutre. Lei è la manna che cade dal cielo.

C’era la strada sterrata che ci impolverava le scarpe, ché noi del quartiere avevamo la scuola a cento metri dalle nostre abitazioni. Da lì andavamo all’avventura, nel luogo chiamato ancora oggi Falconara; ogni mattina volevamo scoprire qualcosa. La bidella e il suo grembiule blu scuro, il suo bacio del buongiorno, il tè con il limone per curare il mal di pancia, l’abbraccio in caso di un attacco di paura.

Le maestre insegnavano, accarezzavano, qualche volta gridavano e mollavano sberle per farci capire meglio. A volte era doloroso il sapere, ma meglio quelle mani che quelle di mamma e di papà. A me spiegarono che la maestra è come la mamma: sa essere amore e ferocia.

Cantavamo stornelli nella “sala grande”. Era il rito del sabato mattina. La porta rossa dal bordo nero sigillava la stanza in cui respiravamo spensieratezza, nella quale “stavamo in fila per sei col resto di due” a “sorseggiare il caffè della Peppina” mentre “Zucca pelata preparava i tortelli che non avrebbe mai dato ai suoi fratelli”.

E noi ridevamo e stonavamo. C’era un mio compagno che aveva imparato a fare i “rutti artificiali”; sembrava un batterista, riusciva a seguire il maestro che suonava la fisarmonica. Ma quello non era scemo, c’aveva la barba lunga e i capelli brizzolati, c’aveva esperienza; infatti se ne accorse, posò la fisarmonica piano piano, si avvicinò al mio amico, gli diede uno schiaffo e gli disse: “Dai, fai ancora la grancassa!”.

Il mio compagno non rispose, diventò viola pure in fronte e si fece una risata… poi pianse, però. Non ruttò più artificialmente, ma trasmise l’arte al cugino che frequentava la seconda elementare, ché lui era testardo, anzi scemo, e ruttava sempre, pure se le maestre o il maestro lo sgamavano. Con lui gli schiaffi servivano a poco.

La campanella suonava. A metà mattinata ci lanciava nella ricreazione, e noi correvamo verso il campo da calcio in pendenza e con le porte senza rete. E le nostre scarpe tornavano a impolverarsi, e sudavamo, e ci spingevamo, e ci insultavamo, e ci sputavamo addosso, e poi tornavamo a essere tutti amici; c’erano però quelli che erano rimasti in classe, perché non avevano consegnato il problema di matematica. Quando arrivavano imbronciati, a ricreazione quasi finita, li consolavamo: “Siete ciucci, ma vi vogliamo bene!”

Tra i ciucci a volte c’ero anch’io…

Fu questa la scuola dei miei giorni felici. Ora saranno giorni felici per qualcun altro, nonostante qui intorno sia tutto asfalto e la terra arata non c’è più, e gli animali sono spariti e i lombrichi sono considerati animali radioattivi. E pure la scuola ora sarà ristrutturata, sarà di materiale antisismico e tecnologicamente superiore, ché il tempo non fa sconti e nessuno sa perché passa, perché mai torna quella felicità che ci faceva correre dalla mattina alla sera, che ci rendeva allegri tra gli alberi, gli ulivi e il grano senza sapere perché.

E io mi fermo adesso davanti alla scuola dei miei giorni felici; c’è il rumore del trapano a farmi compagnia, mentre il mio cuore batte come nel 1988. Mi dissero che la felicità non è mai scontata, quindi anche questi ricordi davanti alla scuola della Falconara sono oggi la mia fortuna.

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