Dei nostri sciacalli. La ‘ndrangheta vien di notte

Dei nostri sciacalli. La ‘ndrangheta vien di notte

Articolo di Martino Ciano

La ‘ndrangheta vien di notte, come ombra tra ombre si aggira schivando le telecamere di sorveglianza e se un movimento strano viene catturato dall’occhio elettronico, lei se ne fotte. Lei se ne fotte di tutti, dei sindaci in protesta, dei cittadini che manifestano, delle forze dell’ordine e di tutti coloro che vogliono combatterla. Continua, sicura del fatto che mai nessuno la fermerà. Ne arrestano dieci e cento sono lì pronti a servirla. Io so, ma non ho le prove diceva il buon Pasolini, e noi sappiamo ma diciamo che non abbiamo le prove.

Vivere in un territorio vuol dire anche conoscere quei meccanismi nascosti, occulti ai forestieri, a coloro che dall’esterno giudicano senza sapere, muovendosi secondo teorie da manuale, ma che poco c’entrano con la vita reale, anzi con la nuda vita. E noi conosciamo il destino di ognuno, in primis dei giovani che da qui fuggono, perché non vogliono investire (e hanno ragione) in un territorio che ha ancora una mentalità anacronistica, seguace della logica del silenzio assenso, che ha paura di chiamare le cose con il proprio nome. La rivoluzione culturale non è uno scambio di libri o di belle parole, ma di rinunce e sacrifici, con il conseguente abbandono di quella tranquillità domestica attraverso la quale ognuno continua a coltivare il proprio orticello. C’è l’orticello in cui ognuno innaffia i propri voti, c’è quello in cui ognuno spera di far sbocciare sostanziosi appalti, c’è quello in cui ognuno prova a innestare la propria carriera su una pianta malata, c’è l’orticello degli interessi personali, intimi, che vanno soddisfatti a tutti i costi e con ogni mezzo. Il più forte si prende tutto, questa è la regola. Ma non è una regola da cavernicoli, ma di stampo modernista; è la faccia sporca di una certa dottrina neo-capitalista.

La quiete dopo la tempesta

Si racconta in giro che la ‘ndrangheta non sia di queste latitudini. Noi abbiamo ladri di polli, cani sciolti che spacciano solo qualche grammo di droga tagliata male per permettersi, a loro volta, il consumo personale senza rimetterci di tasca propria; qualche buonuomo che presta soldi con spirito filantropico, pur facendosi scappare la mano con il calcolo degli interessi. Abbiamo individui che chiedono una mano con i documenti per partecipare alle gare d’appalto, magari facendosi spifferare importanti notizie durante un momento conviviale a base di piatti della tradizione. Insomma, per taluni tutto è banale, tutto avviene in un clima amichevole, ché qui siamo amici e amichevolmente collusi anche se poi è palese che i soliti se la prendano nel culo.

Se hai quindi la fortuna di vivere sul Tirreno cosentino da quarant’anni sai bene che ciò che sta avvenendo, ossia incendi, furti, qualche colpo di pistola d’avvertimento, alcuni ordigni lì e qua, è l’inizio di una nuova stagione di spartizione, di disequilibri che vanno riequilibrati (un po’ come si fa con il volante dell’auto). Se hai la fortuna di risiedere sul Tirreno cosentino, sai che hai perso tempo e voglia di sentire sempre le solite chiacchiere e i soliti discorsi, perché tutto finirà in dettagliate mappe illustrate, con tanto di legenda per rendere più agevole la lettura, di qualche libro dei “professionisti dell’antimafia” sulle minacce della criminalità organizzata 2.0 o 3.0 o 50.0. Se vivi sul Tirreno cosentino sai bene che quando si dicono cose come “il cambiamento parte da noi”, che “ognuno deve fare la propria parte”, che “i giovani sono la speranza”, che “la cultura salva”, si dimentica che ognuno può fare da sé quello che può, ma quando il contesto è malato (come il clima impazzito), la cura dev’essere drastica.

Invece, due cose hanno sempre fottuto noi che viviamo sotto il cielo del Tirreno cosentino, anche se mi dicono che è così un po’ dappertutto, l’indifferenza tramutata in buonismo, che a sua volta produce una presunzione d’innocenza in cui siamo tutti colpevoli di essere, anche per un giorno, avvocati del diavolo.

I miei maffiosi di Mario La Cava, Hacca edizioni, 2019

Per non dimenticare

Andremo avanti con la storia di vivere nel posto più bello del mondo, un luogo a cui la natura ha dato tutto, in cui non ci manca niente, ma proprio niente per essere i migliori. Poi mi domando: “siamo i migliori rispetto a cosa?”

Ho salutato un amico, l’ennesimo, che con le valigie in mano ha preso un treno per Napoli, da lì prenderà un aereo e si costruirà una nuova vita in una bella città tedesca. Dove va non c’è il mare, anzi fa freddo e non si mangia neanche un bene; la gente poi non ti dà tanta confidenza come qui, ma alla fine uno si adatta. A lui ho consigliato di leggere un libro, ossia “I miei maffiosi” di Mario La Cava, Hacca Edizioni, che contiene ben ventotto articoli sulla ‘ndrangheta scritti tra gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso. La Cava ne parla in maniera semplice, da calabrese, con la profondità di una persona comune che fa esperienza di ogni aspetto del suo territorio, assaggiandone il dolce e l’amaro.

Gli ho consigliato questo libro perché è giusto che anche lì, in Germania, si senta a casa, consapevole che certe cose fanno parte di una certa calabresità, ossia omettere e lasciare che tutto vada secondo un fatalistico piano divino. Il resto si vedrà, c’è tempo per emanciparsi, ma forse non ce n’è neanche necessità.

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