Ritorni e scatti. Prima Parte
Racconto di Francesco Di Giorno
Gioacchino divideva la stanza con me. Non eravamo ancora uomini, né totalmente ragazzi, ma lui aveva messo su già un inizio di gobba. Sveglia tutti i giorni alle 7:30 per studiare. Il display della sveglia però segnava sempre un quarto d’ora avanti. Un giorno gli dissi: “Gioacchino, come mai è sempre un quarto d’ora avanti la tua sveglia?” Mi rispose serio e accigliato come sempre: “Perché così vedo che è tardi e mi affretto a sbrigarmi!” Non riesco a rispondere all’assurdo. Quindi rimasi mestamente in silenzio.
Gioacchino rimaneva con la tapparella chiusa perché io, poltrone e depresso, ancora tiravo avanti nel sonno. Sembrava dirmi: “Dormi tu, non andrai avanti se continui così a non fare niente”. Ma il mio male era esistenziale, rifiutavo la vita, e soprattutto il sole che entrava tra i buchi di quella orrenda tapparella di legno, reperto storico dei tempi della guerra perduta. Lui macinava come un trattore, e sembrava proprio esserlo con quel suo setto nasale deviato da dove usciva un respiro forzato e rumoroso, quasi ingolfato. Rimaneva in pigiama, mentre io la prima cosa che facevo quando mi alzavo era togliermelo. Mi opprime, mi fa sentire malato. Non faceva neanche colazione. Una scappata in bagno a fare la pipì, un po’ d’acqua sul viso e giù a studiare. Verso le 10:00 apriva il cassetto e prendeva una fetta di pancarrè, poi una sottiletta dal frigo e con cura preparava la sua colazione.
Si risedeva e la mangiava, continuando a sbuffare da quel suo naso a patata. Quando voleva scaricarsi o fare un po’ di movimento agitava le gambe a destra e sinistra velocemente, aumentando così anche l’intensità del suo respiro affannoso. Io nel frattempo o dormivo male o non dormivo proprio e mi svegliavo con un forte mal di testa e tutti i miei problemi inventati per soffrire di più.
Verso le 12:30 Gioacchino si apprestava a preparare il pranzo. In 10 minuti tutto era pronto. Non gli ho mai visto prepararsi una pasta al sugo durante la settimana. Metteva su l’acqua e tirava via dal frigo il pesto, o al massimo una scatola di fagioli o lenticchie che cucinava un po’ su una padella centellinando olio e cipolla e poi vi scolava su il riso.
Perché con i fagioli e le lenticchie abbinava sempre il riso, col pesto la pasta. Avrà sicuramente mangiato altre succulente pietanze all’italiana, ma io ricordo solo queste. Aldilà degli insaccati e dei formaggi vari ovviamente, pasti ancora più veloci. Dalle 15 alle 15:30 il bagno era suo. Poi non potevi entrarci per un bel po’. Aveva un orario per la cagata che succube del suo padrone a malincuore doveva per forza uscire per tempo. Poi si rimetteva a studiare. Nelle poche chiacchiere che ci scambiavamo si informava con curiosità sul mio modo di prendere la vita. Non riusciva proprio a capire che, nonostante la forte determinazione da parte mia ad applicarmi, a volte gli occhi andavano per i fatti loro e la mente li seguiva con curiosità. Vagavo, dopo un po’ prendevo la saggia decisione di fare altro e rimandare lo studio ad un altro momento.
Gioacchino mi confessò: “Sai anche a me capita così a volte, dalla mattina alle 7:30 fino alla sera riesco a studiare sì e no due righe, non vado oltre, ma mi costringo a rimanere a casa, perché così almeno sto a posto con la coscienza, non mi prendono i sensi di colpa.” Ripeto, non riesco a replicare all’assurdo.
Arrivava la sera e tutto contento del dovere svolto si apprestava a cenare. Wurstel cotti nell’acqua fino a scoppiare messi dentro un comune panino con la solita sottiletta. Oppure spinacina fritta con un filo d’olio.