Salvatore Satta, Il giorno del giudizio, Adelphi

Recensione a cura di Martino Ciano – già pubblicata su Zona di Disagio

Non solo un romanziere, ma anche un attento osservatore dei fatti storici. Salvatore Satta ha raccontato la Sardegna e l’Italia attraverso due libri fondamentali: Il giorno del giudizio e De profundis.

Bisogna leggerli uno dopo l’altro per comprendere la profondità di questo scrittore, conosciuto soprattutto come giurista. Eppure, nonostante la fama da letterato arrivi solo dopo la sua morte, Satta ha scritto uno dei romanzi più interessanti del nostro secolo. Il giorno del giudizio è stato tradotto in diciassette lingue, pur narrando della sua Sardegna: isola di demoniaca tristezza, dove la vita scorre senza un perché.

Ambientata a Nuoro, l’opera cavalca gli anni tra la fine del XIX secolo e la prima guerra mondiale. Satta ci racconta di una città immersa nella campagna, dove i padroni sono più poveri dei servi, in cui nulla sovverte l’ordine “naturale” delle cose, ossia, ciò che è stato reso così dall’umana consuetudine. I suoi personaggi sono parte di un gioco del destino, che li ha relegati a una tradizione accettata, ma mal sopportata; sotto cui arde timida la fiamma di una rivoluzione solo sognata. L’importante è credere che prima o poi qualcosa cambi. Basta questa convinzione ai nuoresi, i quali si affidano alla benevolenza del tempo.

Cos’è quindi il giorno del giudizio? Semplicemente, è un momento che non esiste. Infatti, il verdetto è stato emesso fin dalla nascita per ogni disgraziato che calpesta il suolo di Nuoro. Così, in questo cimitero in cui la voce narrante va a fare incetta di ricordi, non v’è l’eterno riposo o la beatitudine, ma il nulla… polvere che seppellisce altra polvere.  Eroi, nobili, contadini e servi; qui marciscono tutti. I loro volti e le loro gesta tornano in vita solo perché qualcuno se ne ricorda; quando anche questi ultimi testimoni moriranno, l’oblio sarà il peggiore dei giudizi.

Eppure, tra la culla e la tomba vi è la vita e la vita non ha una trama, ma è un susseguirsi di azioni che il tempo giudica, anche quando si tenta di nasconderle. Satta accorda a qualcosa di superiore il diritto di emettere il verdetto. È un dio paziente, un tenace osservatore che sa di avere il coltello dalla parte del manico. E la sua vendetta si compie lì, nel cimitero, dove ognuno viene dimenticato. Satta popola il suo romanzo di tanti personaggi, uno più interessante dell’altro. Ognuno è un frammento ben definito, incastonato in un disegno chiaro, ma complesso. Lo scrittore sardo ci descrive tutto con un linguaggio raffinato, evocatore di un disincanto necessario, senza il quale non riusciremmo a seguire il racconto con un pizzico di nostalgia.

Il mondo di cui parla Satta non esiste più; è già stato giudicato e dimenticato. Di questo ambiente bucolico, dove la libertà è sinonimo di ricchezza e la roba è il lasciapassare per la felicità, non ricordiamo nulla; ne conserviamo solo un vago ma tremendo giudizio. Di qui, la potenza di questo romanzo, ossia, aver anticipato i nostri pensieri e i nostri verdetti. Il passato che svanisce, che non lascia traccia di sé nelle generazioni future. Così, rievocare gli altri è un po’ ricercare se stessi, nella speranza di non svanire prima ancora che le trombe del giudizio suonino.

Meritevole di attenzione anche il De profundis, nel quale lo scrittore sardo prova a capire i motivi che hanno spinto gli italiani ad abbracciare il Fascismo. Ma di questo vi parlerò la prossima volta.

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