Rimodellare. Un delitto inconscio

 

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Racconto di Martino Ciano – già pubblicato su Libroguerriero

Forse l’ho già scritto da qualche parte o forse ho solo immaginato di scriverlo, l’uomo è nato per tormentare e per tormentarsi. La cosa importante è capire quanto ne valga la pena. Eppure, ci è data la possibilità di scendere in strada e sparare, dando vita a un giocoso massacro in cui tutti sono vittime e carnefici; così come possiamo sputare veleno su un foglio bianco, usando le parole come proiettili, e poi, strappare o bruciare tutto, lasciare che ogni pensiero torni a essere un segreto. D’altronde, un segreto è sempre qualcosa che ci angoscia, che ci scava. Sappiamo che prima o poi troverà il modo per manifestarsi al mondo, ma non importa, bisogna pur patire per qualcosa.

Questa notte ho voluto chiudere i conti con il mio segreto. Mi sono svegliato alle due e tredici minuti, sono andato in cucina, mi sono preparato una tazza di caffè, l’ho buttata giù come un assetato, sono andato in bagno, mi sono lavato il viso, le ascelle, poi ho messo i pantaloni blu scuro, la camicia azzurra, i mocassini color indaco.

Fuori la notte, addosso avevo tutte le tonalità del cielo delle prime ore del giorno.

Mi sono seduto alla scrivania e ho iniziato a confessarmi.

Avevo appena finito di rimodellare una donna, la mia donna di cui non ricordo neanche le iniziali del nome. Stavo lavorando intorno al collo e a un tratto ha smesso di muoversi. Tutto stava andando bene. Ricordo che avevo davanti a me un ammasso di argilla morbida e le mie mani ricostruivano l’immagine che avevo di lei in mente. Ho sempre amato modellare, costruire, far sì che tutto fosse come me lo immaginavo. Ho sempre odiato il caso, il libero arbitrio. Mi sembra ingiusto che un uomo nasca e si accontenti di ciò che qualcuno ha creato per lui.

Bisogna osare. Con la mia donna ho osato. È stata l’unica volta in vita mia e poi lei è sempre stata così accondiscendente. Silenziosamente, mi ha sempre ringraziato.

Prima del ritocco che ho apportato qualche ora fa sul suo corpo, ho impiegato cinque anni per imprimerle la forma che volevo. Ha lasciato il lavoro da segretaria d’azienda, ha lasciato la palestra, ha smesso di frequentare le sue amiche, ha abortito perché non avrei mai voluto un altro impiastro da modellare a mia immagine, sarebbe stato troppo impegnativo, non potevo permettere che la mia casa si trasformasse in un museo delle ceri. Ha imparato a parlare la mia lingua, ha soddisfatto le mie voglie a tavola, a letto, nel vestirsi, nel pettinarsi. Non ha mai disobbedito. Poi, un giorno, ha iniziato a ribellarsi, a gridarmi contro, mi ha chiamato mostro. Non potevo permetterle che si rivolgesse così. Dovevo intervenire.

Solo mia madre mi apostrofava mostro quando mi beccava a torturare le lucertole. Avrei rimodellato anche lei, ma non potevo fare tanto; d’altronde, lei mi aveva donato la vita, mi aveva allevato. Dovevo accettare i suoi rimproveri. È una legge di natura, non si può distruggere il proprio creatore, al proprio creatore ci si sottomette. E poi, ci pensava mio padre a rimodellarla con qualche ceffone sul viso. Anch’io avrei voluto farlo, mi sarebbe piaciuto. L’ho fatto con la mia donna. Qualche schiaffo, qualche calcio, tante parole che le incutevano terrore, che le facevano piegare la testa, a cui rispondeva spogliandosi, allargando le braccia e accogliendomi in lei, e quando la penetravo era come se penetrassi in me, nella mia opera d’arte. Era l’unico momento in cui mi sentivo in pace con l’anima.

Ora, però, deve svegliarsi.

La mia donna è distesa sul letto. Ha un corpo ferace. Vorrei possederla, farle capire che è mia, che non deve disobbedire più. So di essere esagerato ma deve avere pazienza. Quando tutti i miei tormenti saranno finiti, sarò sereno e lo sarà anche lei.

Adesso, devo svegliarla. Il rimodellamento è finito da un pezzo.

Devo solo togliere i segni viola che ha intorno al collo e poi sarà perfetta.

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