Ricordo dell’eternità. Un frammento narrante 

Ricordo dell’eternità. Un frammento narrante 

Articolo di Martino Ciano

Nati lontani dal coro, siamo sbocciati come i rovi, così ricchi di spine da far schifo anche alle mosche; si viveva di poco, si moriva di troppe cose, si assaporavano gli attimi. Lungo il fiume che divora la costa, dove l’erosione ci ha strappato a piccoli morsi l’anima, abbiamo sofferto per troppe risate, per i sogni interrotti e per i giudizi degli altri.  

Che una carezza valga quanto uno schiaffo lo avevamo imparato da tempo. Tutti si agitano per un po’ di amore, figuriamoci per un gesto di pietà o di consolazione. E noi ci siamo sempre fidati della pelle degli altri, degli sguardi delle madri, dei baci delle amiche, delle bugie dei padri, degli inganni dell’umanità.  

Così abbiamo ingannato, e maledetto, e pianto, e gioito; su ogni ricordo, su ogni tormento, su ogni vizio, su ogni capriccio abbiamo steso un velo di misericordia. Ma ciò che mancava era saper accettare lo scorrere delle ore. Guardare sempre lo stesso cielo ed esser certi che prima o poi da lì il sole e la luna sarebbero passati.

È la vita, la vita non ha altre alternative che respirare tra alba e tramonto, fin quando va bene.  

Mentre ci condannavamo agli schiaffi della marijuana, le nuvole ci passarono sul capo, qualcuna di loro pisciò per un attimo… non ci siamo riparati, ci siamo bagnati di onore. Dietro il canneto abbiamo giocato come i bambini, saltando nel fango, vomitando per le troppe risate. Ce la siamo presa con i santi, con i nostri morti, con le mosche… eravamo noi. La paura della morte è la consapevolezza che tutto è un gioco, che oltre ogni traguardo umano sta lo sguardo dell’eternità, che troppe cose ci accarezzano amichevolmente per viltà. Poi è finita. Cosa? Non l’abbiamo mai capito e mai lo capiremo. C’è un giorno che si riempie di ricordi, un giorno in cui si vuota il sacco, un giorno in cui si perdona tutto… poi finisce, finisce ogni tensione, ma nessuno sa perché? 

Così raccontava un amico del mio paese. Un caffè al bar dei nostri pomeriggi spensierati, ma ora aveva una vita altrove, in città. Mi ripeteva che la vita è uguale ovunque, non cambia niente, sono tutte false le esperienze fatte e quelle che si sognano. Tanto a Roma quanto nel tuo paese ci sarà sempre qualcuno che ti chiederà Come stai? E tu risponderai Tutto bene! Perché tutto bene liquida in un solo colpo ogni responsabilità, ogni confessione, ogni possibilità di confronto. Eppure, si impara presto che non esiste un dolore maggiore o minore, una sofferenza che sia peggiore dell’altra. Puoi essere grato di esserci, fin quando ti va bene, puoi essere gioioso, ma tra te e il mondo non c’è altro che un respiro.  

Così, abbiamo ricordato con il mio amico quel giorno in cui prendemmo da terra le nostre biciclette dopo aver pulito le suole delle scarpe strisciandole sull’erba. Ci siamo allontanati felici, mentre l’asfalto emanava il profumo della pioggia e mai più è tornato un momento così felice e spensierato. Per questo ci è ritornato in mente, a distanza di venticinque anni, perché ora che siamo adulti, che lavoriamo, che lottiamo per essere felici in questa società, abbiamo paura, mentre allora ci sentivamo forti ed eterni come la luna e il sole e come quel fiume che sempre scorre, ma alle cui sponde non abbiamo più saputo avvicinarci. 

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