Ricordo di Calabria. Il “buongiorno” da un paradiso perduto

Ricordo di Calabria. Il “buongiorno” da un paradiso perduto
Articolo di Gattonero
Era una terra selvaggia, aspra e forte quella del mio primo contatto calabrese. Ma non era la porta dell’Inferno. Era meravigliosamente bella e selvaggia, senza peraltro essere la porta del Paradiso. Forse di un Eden, quello sì.
E non avrebbe potuto apparire altro, a un cittadino che veniva da lontano, da città con architetture splendide ma con una freddezza compassata, plasmata da secoli di battaglie guerreggiate, che avevano lasciato strascichi di cortesie formali e rancori repressi, ormai radicati nel profondo delle anime. Alle cose spiacevoli ci si abitua; ci si abitua perfino a quelle brutte, si fa abitudine pure alla morte.  Quelle belle, no, sono sempre una sorpresa. Magari cose piccole, piccoli gesti, un sorriso, un saluto. Quando queste piccole cose te le ritrovi appena metti piede in una terra bella, selvaggia e aspra e forte… be’, non ci credi.
Quando per anni hai dato (ricambiato, per carità, niente da dire!) il buongiorno al dirimpettaio solo se incontrato casualmente per le scale o in ascensore, trovare uno sconosciuto che te lo porge, il buongiorno, rimani disorientato, anche se questo è dire poco. La diffidenza ormai congenita porta a chiedersi chi diavolo sia, cosa cacchio possa volere questo individuo sicuramente mai conosciuto, mai prima incontrato, visto che qui ho messo piede solo adesso.
A sera, a passeggio nel borgo antico, con stradine strette, acciottolate, con qualche gradino che dagli usci spalancati portava al piano strada… piano strada si fa per dire, non c’era pianura nel paese, era possibile scegliere tra salire e scendere, acchianà scinni. Dove, per almeno un paio di secoli, avevo ritenuto che acchianà volesse dire scendere; scinni, invece, mi era stato da subito chiaro, più o meno, anche se mi sembrava un doppione inutile… ma questa del dialetto è altra storia.
E su quei gradini donne sedute al fresco della sera, che guardavano il passante e, pur se ignoto, lo salutavano con un ‘buonasera’ sussurrato, timido, aggiungendo di buon peso un sorriso, sovente sdentato ma convinto.  Una sferruzzando, un’altra infilando peperoni, un’altra ancora lavorando i fichi da seccare per l’inverno… tutte raccontandosi a vicenda le piccole notizie del giorno, innocui pettegolezzi che, l’indomani, con la diffusione in posta o in chiesa tra una prece e l’altra, dilatati da appunti soggettivi, finivano per diventare storia, anzi leggenda, per i posteri e per chi questi racconti amasse ascoltarli. Fiabe che si vorrebbe non avessero tempo, e che purtroppo la fuga della gioventù verso lidi promettenti finisce per affogare nel triste mare dell’oblio.
C’era voluto del tempo per abituarmi a questa ‘cerimonia’ dei saluti, quasi altrettanto per imparare a rispondere senza pensarci troppo su, come reazione automatica. Per poi finire col giocare a ‘chi fa prima’, e darmi un punteggio a ogni saluto offerto prima di essere ricevuto.
Col passare degli anni, questa terra è ancora bella, ma meno bella di quando appariva selvaggia; il tempo ha portato tante cose (e case) belle, per accettarle è stata sacrificata buona parte di quel selvaggio che non era un selvaggio creato ad arte, ma semplice, vera natura naturale. Aspra lo è ancora, ma molto meno che allora, ed è un aspro diverso. Il buongiorno/buonasera copriva l’amaro di vite stentate, quello odierno sa di diffidenza, di avversione preconcetta, ‘qualità’ già ben note e acclarate e importate da quella che ancora si crede fosse la civiltà. L’aspro giovanile non ha più il sapore di vita vissuta, ma il gusto sapido di una vita a venire diversa, che tempi sempre più grami ostacolano nel suo divenire, ma che già è pregustata ritenendola prossima a venire.
Un Godot, che prima o poi arriverà…
Forte era, questa terra, e oggi tenta ancora di apparire tale; ma è solo una facciata a coprire la debolezza di fondo di chi ha abiurato la forza propria per sposare una potenza estranea che non le appartiene e che ne sta sgretolando le fondamenta.  La Calabria era roccia di granito, oggi non è più roccia ma vecchia quercia: ognuno la loda, ognuno taglia i suoi rami. E a sera, chi loda e chi taglia, col suo grave fascio va (cit.)…
Altrove, poiché il futuro dei calabresi, dei giovani calabresi, non è più in terra calabra. Che resta bella e aspra, ma che vede la sua forza scemare a mano a mano che i vecchi se ne vanno; per acchianà in un posto senza confini che, per Paradiso che sia, non sarà mai come quello lasciato in terra. Quella terra bella, amara, amata… violentata.

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