Ricordi michelstaedteriani. Ecco come la filosofia ti cambia
Articolo di Stefano Cazzato
Qualche nota a margine, per lo più di carattere personale e nostalgico, al bell’articolo che Martino Ciano ha scritto di recente su Carlo Michelstaedter.
Siamo a Pisa, è il lontanissimo 1982 e tornando a casa, dopo una lezione, attraverso Borgo Stretto, prima di entrare nella piazza dei Cavalieri e poi in quella dei Miracoli, mi metto a frugare, come faccio sempre, tra i libri esposti alla rinfusa di una storica libreria, sono sempre quelli che mi attirano di più, così ho scoperto Cioran prima che tutti dicessero Cioran Cioran, così ho scoperto Clement Rosset che ancora oggi in Italia è un illustre sconosciuto o George Perec.
Così scopro un libro insolito, inattuale, di un pensatore dal nome impronunciabile (Michelstaedter), che guarda ai Greci come nessuno vi ha guardato, che parla di alcuni uomini, i persuasi, che hanno trovato in sé il senso della vita, che hanno cercato nella propria interiorità un rifugio per sfuggire al vociare chiassoso dei malvagi.
Anche se scrive forsennatamente di tutto, saggi, poesie, lettere, recensioni, frammenti, non ha grande fiducia nelle parole e nel linguaggio; questo tipo che ha un nome che non sembra italiano non crede nella società, nella politica, nell’educazione che gli appare spesso come una forma di manipolazione. Ricorda lo Schopenhauer di Nietzsche e Nietzsche stesso. Cita Leopardi, Platone, Ibsen. Non sopporta Aristotele.
E rilegge a partire dalla sua carne molto sensibile e dai suoi nervi molto tesi (e anche dalle sue radici ebraiche) la storia e la genesi dell’Occidente nel segno di una decadenza: tutto è diventato menzogna, tutto copertura retorica della tragica e unica verità della vita espressa con la celebre metafora del peso, un peso tende verso il basso e quando lo raggiunge non è più peso. Ma c’è anche lo sfondo storico da cui emerge lo spleen individuale. Sono i tempi di Papini, della Voce, di quel disagio lì, del disincanto intellettuale verso la comunella dei borghesi.
Ne sono colpito, affascinato, perché sono un ragazzo timido e solitario e malinconico, e anche perché il pensatore che ha scritto quel libro è uno strambo studente di filosofia ai ferri corti con la vita, col sapere accademico e con l’idealismo di Hegel, con la scienza, con le certezze. Ama la vita che costantemente lo delude.
In quel tempo mi piace tutto di lui (persino lo strappo suicida con cui chiude con il mondo all’età di soli 23 anni), in poco tempo mi invento una tesi, la scrivo di getto in un’estate, fregandomene un po’ delle fonti, dell’acribia dei filologi. Le note? Solo quelle necessarie, sento a pelle l’autore o credo almeno, mi laureo. Ottengo un ottimo punteggio anche se l’illustre Gargani dice che la mia tesi è tendenzialmente reazionaria. Quasi quasi mi identifico con Michelstaedter ma fino a un certo punto, non scherziamo! Lui è un fuori posto nel mondo io, nel migliore dei casi, un fuori sede. Qualche anno dopo pubblico un libro “Esercizi di realismo” che, visto da qui, è un debito nei suoi confronti o una citazione o un commento o una divagazione atmosferica e impressionistica o qualcosa di simile. Insomma l’opera prima (prima sicuro, opera non so) di un giovane leccese che si sentiva vecchio dentro, vecchio e nordico. La storia di uno sradicamento, di una cacciata dal paradiso.
Di quel filosofo, del goriziano Carlo Michelstaedter, anche se resta dentro di me un’aurea e una certa inquietudine, poi ho ripensato e rinnegato molto, smaltiti gli ardori e le ingenuità della giovinezza. Com’è giusto fare. Soprattutto l’ho riletto con più distacco, filtrato, digerito meglio. E con questo distacco ne ho scritto in tempi più recenti. Ma allora fu innamoramento vero, affinità elettiva, in quel punto di Borgo, dove sono tornato, un po’ più persuaso del solito ma non del tutto, dopo oltre 20 anni. All’epoca ne avevo 23. Oggi ne ho 58.