Viaggi intergalattici per rondini in primavere assenti

Viaggi intergalattici per rondini in primavere assenti

Racconto e foto di Martino Ciano

“Quando hai fame c’hai fame e basta; pensi a mangiare subito, che magari domani non ci sei più”. Così mi disse un uomo qualche mese prima di passare a miglior vita, in uno dei suoi momenti di lucidità. Prima operaio, poi pensionato, infine acciaccato. Nell’ultimo periodo faceva viaggi intergalattici, si spostava tra le dimensioni, la sua mente annullava lo scorrere del tempo; passato e presente li aveva davanti ai suoi occhi contemporaneamente, peccato che non sapesse predire il futuro. No, il futuro non lo vedeva proprio.

Gli dissi che avevano rimosso le lettere cubitali dalla facciata della fabbrica nella quale aveva lavorato, ossia Marlane, e che qualcuno ci aveva fatto un bel graffito, cioè Nomi. Ecco, forse quella parola non si legge così, ma diciamo pure che ognuno interpreta le cose come gli pare, soprattutto la storia dello sviluppo, del progresso e dell’obesità economica.

“E perché non cognomi? I cognomi sono importanti”. Ribatté lui, che mi guardava con due occhi che svolazzavano a destra e a sinistra tra le orbite infossate. “I cognomi sono come le rondini a primavera”, continuò a ripetere, ma io non gli avevo chiesto niente e nulla mi interessava. La storia ha un inizio e una fine per tutti, anche per me un giorno sarà finita e me ne andrò via con i miei segreti. Dei morti puoi dire tutto: non possono difendersi, non possono lamentarsi, non hanno altro da aggiungere. Sono numeri per statistiche. Anche di me, una volta morto, si potrà dire il peggio e il meglio.

Tranne i familiari di prima generazione, che il dolore se lo portano dentro come un macigno, mentre il ricordo si alleggerisce di generazione in generazione, i morti li resusciti con qualche aneddoto sul loro conto. D’altronde, non ci sono più, se ne fa ciò che si vuole. Anche della fabbrica se ne può fare ciò che si vuole; la si può trasformare in storia locale, nazionale e internazionale. Può diventare un’opportunità, una sciagura, un complotto o una storia d’amore andata male.

Triste e sospesa, solitaria e in attesa, la vecchia tessitrice è un rudere per giochi spontanei di memoria. Ci si potrebbe aprire un dibattito, senza troppi perché e per come. I danni lasciati, le felicità assistite, la ricchezza elargita, il post, il pre e il durante. Tutti hanno qualcosa da dire, anche gli ex bambini, ora adulti, della generazione anni Ottanta, che da lì passavano e sentivano un odore acre, vedevano ogni tanto una macchia verde sull’asfalto, camminavano su una resina appiccicosa che cadeva dagli alberi e ricopriva il marciapiede. Ora, è un monumento archeologico industriale, uno dei tanti. Ci giocano a fuochino-fuocherello.

“C’ho dato la vita ed è l’unica cosa della vita che ricordo”, mi disse l’uomo di cui ho riportato queste poche frasi. Me le ha dette in dialetto, io le ho tradotte, così potranno capirle tutti, prima di dimenticarle di nuovo.

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