Estinzione. Thomas Bernhard e “l’interpretazione della solitudine”
Recensione e foto di Martino Ciano. In copertina: “Estinzione” di Thomas Bernhard, Adelphi, edizione 1996
Parte dalla radice, ossia dalla sua lingua-madre. Lui disprezza quel tedesco così aspro, gutturale, senza nessuna armonia. Ogni parola è un grugnito, i suoni delle sillabe sono fastidiosi. Dal suo villaggio, ossia Wolfsegg, feudo austriaco, luogo dal quale il protagonista di questo romanzo apparso nel 1986, ma forse pronto già a inizio degli anni Ottanta, è scappato via. Come la gran parte dei personaggi di Bernhard, anche questo uomo nato per estinguere e per compiere uno sfacelo odia profondamente le sue origini. Si è rifugiato a Roma questo rampollo austriaco poco amato e sempre malvisto dalla sua famiglia. Ha scelto la letteratura e la filosofia. Ha deciso di allontanarsi da un padre e da una madre ex nazionalsocialisti, cattolici, pienamente austriaci, fieri della loro ricchezza, avidi e bigotti. Nella Città Eterna, il fuggitivo ha deciso di insegnare, anzi di essere un intermediario della letteratura e della filosofia tedesca. Il suo studente è un anarchico, uno che vorrebbe far saltare in aria il mondo; forse un giorno lo farà. Gambetti, questo il suo cognome, è il suo allievo e proprio a lui ha confidato quanto schifo provi per quella patria ottusa. Poi, a un certo punto, in un incidente stradale muoiono la madre, il padre e il fratello; restano in vita solo le sue due sorelle Amalia e Cecilia. Una di queste si è sposata una settimana prima della tragedia con lo sciatto Fabbricante di tappi per bottiglie da vino.
Estinzione, ossia pacificare
Immaginate un lungo monologo di 493 pagine, diviso in due parti. Immaginate di immergervi in una prosa uniforme, anche quando appare sconnessa, nella quale i pensieri rimbalzano; eppure, proprio grazie all’effetto ridondante costruito da Bernhard tutto è magicamente lineare. Immaginate infine un’orchestra che ha sempre un ritmo immutato. Intanto, la storia vi ha preso per mano, l’angoscia di questo esiliato costretto a tornare di nuovo dopo il matrimonio di una delle sorelle, a cui aveva partecipato controvoglia, in quella patria, l’Austria, così tanto odiata. Vero, ci torna per un funerale, ma anche per tirare le somme. Ecco che allora estinguere, ossia chiudere i conti con l’astio e con le proprie radici, diventa un modo per “mettere pace” tra il protagonista e sé stesso, tra il protagonista e il mondo. Estinguere vuol dire anche saldare un debito morale che di colpo sanerà i debiti con la storia personale, con quella della piccola Wolfsegg e con quella europea. Estinguere è anche un pianto silenzioso, disperato, che non produce lacrime, ma tormenti nei quali si annega.
I semplici, Zio Georg e l’arcivescovo Spadolini
Il protagonista ama i semplici, soprattutto i giardinieri di Wolfsegg. Sono loro a donargli, durante gli anni della giovinezza, l’immagine di una vita vera, senza sovrastruttura, per quella che è, ossia un rotolare verso l’abisso. Odiava e continua a odiare i cacciatori, però. Proprio questi erano i più amati da suo fratello e da suo padre. Loro due amavano la caccia; il loro tempo libero era dedicato all’uccisione delle bestie. E poi c’è lo zio Georg, colui che lo ha avviato all’amore per l’arte, la letteratura e la filosofia. Anche lui si era rifugiato in Francia pur di non essere contaminato dall’Austria e dalla mentalità di Wolfsegg. Ha preferito la via dell’esilio e ha salvato suo nipote, il protagonista di questo sfacelo. Lo zio Georg è stato colui che lo ha corrotto, che gli ha aperto la porta della gabbia e di quelle cinque biblioteche in cui lui, il figlio degenerato e dal pensiero deviato, non poteva entrare. Eppure, quei libri erano lì da secoli. Perché sarebbero dovuti marcire? Discorso a parte per l’arcivescovo Spadolini che, tra tutti i personaggi che abitano questo romanzo, è quello più ambiguo. Lui è un uomo affascinante, di cultura, di spirito, ma è anche l’amante della madre del protagonista. Il connubio di “amore e odio”, che nel romanzo squarcia le parti più intime dello “sfacelo” che ha in mente questo fuggitivo, dà vita a pagine in cui si intrecciano sentimenti profondi, di estrema rabbia e di altrettanta docilità. Estinzione è un romanzo dal tono pacato, non ci sono gli eccessi o i parossismi cui Bernhard ci ha abituato, tutto è diluito da un sottofondo di rassegnazione, di irreparabilità, di stoica resa. È come se tutto fosse stato consegnato alla Storia e al giudizio del Tempo. Cosa può fare chi resta?
La scelta che pacifica ed estingue
Alla fine il protagonista, diventato unico erede delle immense ricchezze della famiglia, decide di donare tutto alla Comunità ebraica di Vienna. È questo l’unico gesto che può fare per non macchiarsi, attraverso quei terreni e quelle case, del passato nazionalsocialista-cattolico-materialista di cui il padre e, soprattutto il fratello, designato fin dalla nascita quale erede universale, si erano infettati. È l’Austria che corrompe, dice il protagonista, e solo con un atto di estinzione totale, irreversibile, ci si può salvare. Il protagonista se ne infischia delle sue sorelle, anche loro saranno sacrificate e in qualche modo salvate. Così il fuggitivo può rendersi padrone del proprio destino, si vendica verso la Storia e verso sua Madre, la sua vera persecutrice, la sua rovina.
Conclusione di uno sfacelo
Estinzione non è un libro semplice, chiede una immersione totale. Bisogna saper trattenere il respiro, bisogna prevedere che parlerà a noi. Lo stesso protagonista, in una delle parti più significative del romanzo, ascoltando le parole dell’arcivescovo Spadolini con le quali elogia madre, padre e fratello, restituendone un’immagine totalmente diversa da quella del narratore, ammetterà che tutti falsifichiamo e che ognuno di noi racconta ciò che si è precostituito nella sua mente. Questo processo è tipicamente umano, in quanto rientra in un piano di sopravvivenza. Ma dopotutto egli è un sopravvissuto, Wolfsegg è un campo di internamento. Allora, come sempre ci chiediamo davanti a un romanzo di Bernhard, chi dice la verità? Forse nessuno; forse attraverso le nostre interpretazioni estinguiamo le nostre solitudini.