Rapito. Un caso di “conversione forzata”

Rapito. Un caso di “conversione forzata”

Articolo e foto di Adriana Sabato

Una pagina dimenticata di Storia in cui la politica si intreccia alla religione. Stiamo parlando di Rapito, il film di Marco Bellocchio che si può a ragion veduta inserire nel genere del dramma psicoanalitico-socio-religioso. Con Enea Sala, Leonardo Maltese, Paolo Pierobon, Barbara Ronchi, Fausto Rosso Alesi, Fabrizio Gifuni, Filippo Timi, il film è ispirato alla vicenda del bambino ebreo Edgardo Mortara, rapito dall’autorità pontificia nel 1858 a causa di un battesimo clandestino impartitogli da una badante cattolica.

Bellocchio ricostruisce accuratamente la vicenda incredibile ai nostri occhi contemporanei, ma che già allora suscitò un grande scalpore e deformò ulteriormente il prestigio della Chiesa cattolica. Senza nulla togliere alla bravura dei vari attori e attrici impiegati, un eccellente Paolo Pierobon veste i panni del sottilmente perfido, papa Pio IX, proprio per la efficace interpretazione di un uomo di potere che attua una sottile azione di fascinazione e seduzione nei confronti di un bambino indifeso e succube di un ambiente intimidatorio quale quello del collegio cattolico, che educò il piccolo Mortara.

Edgardo, dopo la fine del potere temporale della Chiesa nel 1870, sarà ormai talmente indottrinato da voler restare nell’ordine sacerdotale. Il lavaggio del suo cervello, e di altri bambini, era stato efficace e profondo tanto da ricordare la cosiddetta “sindrome di Stoccolma” che, secondo gli psicologi, può instaurarsi fra sequestrato e sequestratori. Ma il dramma e l’orrore di Rapito sta certamente nella spietata determinazione della Chiesa nel fare del caso Mortara un caso esemplare, e ancora nella volontà di non cedere di fronte a nessuna pressione, nella consapevolezza, anche magari solo inconscia, ma fortissima, dell’imminenza della fine di un’era e di un potere.

Il dramma è anche nello strazio indicibile di due genitori (Fausto Russo Alesi e Barbara Ronchi) che vedono un figlio strappato via, condotto lontano e forzato ad abbracciare una fede che non è la loro. E qui Bellocchio, che pure racconta in tutta la sua lacerante forza il dolore di questi genitori, sembra suggerire che anche l’ossessione del personaggio di Ronchi per la preservazione della propria fede, oltre per quella del figlio. Una preservazione, dunque, che diventa ostacolo alla possibilità di riabbracciare Edgardo prima e di ritrovarlo poi: un dogmatismo assurdo e, in qualche modo, disumano, ma al tempo stesso anche una questione identitaria, e non religiosa, che è da rispettare.

Nello stesso Edgardo, nelle sue rare ma sintomatiche espressioni schizofreniche, è contenuto un orrore cui Bellocchio non è affatto indifferente, anche se la sua posizione è forse incarnata dallo sconcerto del fratello di Edgardo che ha abbandonato ogni fede e ogni credo, se non quello rivoluzionario e unitario, laico e funzionale al ritrovamento del fratello. Da non perdere.

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