L’Arlecchino rosso
Racconto e foto di Antonello Cristiano
Per mio figlio la bocca è la ragione d’essere degli uomini, la mia ragione d’essere. Di notte, se smania per un incubo, viene subito a cercare le mie labbra, i miei denti con la mano: tasta prime le une, poi gli altri, con perizia e parsimonia. Arriva persino a infilarvi, senza timori saturnini, tutt’e quattro le dita, come in una Bocca della Verità di cartapesta.
Così, esaurito il suo cerimoniale ontologico, una volta accertatosi della mia presenza, della mia sussistenza ad onta del buio che tutto annulla, rassicurato si riaddormenta. Il suo sonno può proseguire come un lento fiume, e con la riserva consistente di un appiglio a cui votarsi quando il fragore accerta dell’imminenza della cascata.
Di giorno, accadono cose altrettanto squisite, di quelle in cui la bocca non si limita ad essere puntello o cavalletto ad un’economia di auto-sollievo, ma una foce, un’effusione che può strabiliare un lungo oooooooooh! cortese e assonnato, cose come la recita in maschera di una scuola elementare. Quella volta la presi sul serio, tanto per cambiare. Filai in soffitta, aprii un cassetto a caso, e subito una vecchia tuta si impose petulante col suo rosso rubino. Sfilai subito quelle strisce bianche, demodé, che correvano ai lati e facevano molto “ginnastica”. La adattai mentalmente a mio figlio, e lì per lì decisi che ne avrei fatto un arlecchino.
Di colori non ve n’era che uno, già si sapeva, né contavo su un improbabile lascito di scampoletti colorati da parte dei suoi compagni, ma il dado era ormai tratto: ne avrei fatto un arlecchino coi fiocchi. Una feluca di spesso cartoncino, un manganello bidimensionale che costituiva in una sagoma di cartone, quattro azzecchi di forbici, quattro risvolti, e l’abitino c’era solo da rimpinzarlo di bianca e fresca carne. Il piccolo titolare non ne fu troppo entusiasta, e avvenne che innescai un bellissimo gioco:
Dimmi, topino mio, quale colore non hai indosso?
Il bianco? Il verde? Il giallo? Il viola?
Quale? Quale? Quale? Quale?
Vedi il dito? Vedi? Vedi?
Se vuoi il giallo tocca il sole:
ecco il giallo al tuo vestito…
Ecco il bianco… il verde… il viola…
Bella trovata, e come opportuna a salvaguardare la mia incompetenza!
Eppure in meno di un quarto d’ora non c’era in casa colore che mio figlio non avesse aggiunto al suo vestito. Indossava, il piccolo, di già tutta la casa, e presto avrebbe indossato il mondo. Vieni: usciamo. Dove volevi andare? Si va a scuola. Sul portone a vetrata, due bandiere. Quale delle due? Non ti sembra ora di fare un lungo frego? Svolazzano maschere. In capo a un gregge di pecorelle variopinte la maestra, con gesti spicci e inconclusi, modera trombette e aggiusta trine alle Dame.
Troneggia su quattro banchi accozzati alla buona un larghissimo vassoio di frappe. Va bene, sono chiacchere. Diamo pure il destro alle battute spicce che da qui a poco pioveranno. La maestra guarda a lungo mio figlio, ed io, come giustificandomi: “Ecco il mio arlecchino”. “Arlecchino?” si rivolge solo a lui: “E gli altri colori dove sono scivolati? Forse sotto la suola delle scarpe?”. Devo ammettere che anche la maestra sapeva il fatto suo. Ma il mio piccolo si faceva sempre più stretto a me, che senza quasi accorgermene lo conducevo lentamente fuori di lì.
Così per tutta quella mattina ho fatto pascolare per il centro, ho spronato e incalzato, sicuro del mio mestiere di papà, quella goccina rubino, così mobile e racchiusa, che non sarebbe mai bastata a ossigenare il corpo moribondo della città, le sue arterie cariate di monotonia. Tant pis. Il poeta Valery andava dicendo che basta sperperare nell’oceano pochissime gocciole di un vino raro per vedere balzare nell’aria amara il carnevale di figure immense. E io forse ci credo.