Poi ci sveglieremo, poi…

Poi ci sveglieremo, poi…

Articolo e foto di Martino Ciano

La contemplazione dal fiato corto si è già infranta sul vetro opaco della retorica… mi è giunta alle orecchie una voce squillante da un coro di automi composto da uomini e donne che stanno in fila davanti alla cassa di un supermercato. Tutti contano gli spicci. Gli spicci, pietre sonanti cacciate fuori da tasche sudate, sono ormai i pochi averi di un popolo che si dichiara pezzente, pur escogitando piani di sopravvivenza e di arrotondamento.

Lavoratori impernacchiati, ché la pernacchia risuona ancora come un barrito d’elefante, si crogiolano nel loro salario minimo tirato su a nero. E che inculatura è il benessere benevolizzante che svolazza con gioia tra le mutande, vicino al buco sacro destinato all’evacuazione. Sono emozioni sboccate quelle che eruttano dal cuore di questa fila ansimante, ansiosa di pagare, per poi dileguarsi tra i propri problemi. Problemi frivoli, dirà qualcuno, ché prima o poi tutti dobbiamo morire, scomparire tra scompisciate risate.

Tutto è aumentato, dal sapone allo zucchero, dalla pesca all’anguria inacidita. “Né si mangia bene né ci si può saziare come un tempo, ma sempre meglio della guerra e delle malattie”, dice un anziano vestito da giovanotto, con i capelli smaltati e gli occhiali da sole fissati sul naso. Tronfio, perché campa con una pensione da “buon pastore della pubblica amministrazione”, rimena e riassume tutto il suo passato esclamando: “in gioventù ho fatti i vermi, in vecchiaia me la passo bene”.

E un ragazzo dalla capigliatura a mo’ di frasca selvatica si volta verso di me… oh me, misero, acuto annoiato, osservatore di brandelli di sé stesso… e sussurra: “noi invece schiattiamo prima, per la felicità della Previdenza sociale”. E continua questo esame di coscienza ad alta voce, tanto per me, quanto per coloro che stanno in fila… “se ci hanno fottuto una volta, ci fotteranno per sempre”, come se la forza della rassegnazione si fosse impressa tra le nostre gambe, in testa, sul petto, e in altre parti vitali che è meglio non disturbare, ché a volte devi essere educato per rendere maleducati gli altri… e poi silenzio, la fila si rompe, le porte del supermercato sono sempre aperte, entrare o uscire è la stessa cosa… siamo tutti una cosa, una sostanza che attende di ricevere un nome, il battesimo della banalità.

C’è sudore sulla fronte, sul viso, sotto le ascelle della gente; c’è un odore di carne estiva, condita con olii protettivi, fragranze penetranti rilasciate da piedi appiccicati a ciabatte di gomma Made in China. L’infradito non sorregge la donna davanti a noi. La sua caviglia si storce e lei si trova distesa a terra; un paio di giovani la rimettono in piedi come fosse un birillo… “s’è fatta male” e “come cazzo ha fatto” riecheggiano come in un algoritmo. A seconda della risposta inflitta alla propria coscienza, ognuno prenderà la sua strada educativa… passato tutto, passati i dolori, persino l’imbarazzo. La donna si infila nella sua auto, sparisce tra i veli dell’umidità, c’è un sole che smorza il respiro, ma resisteremo… siamo italiani dal culo allenato.

C’è pure uno che chiede due spicci per un panino. “C’ho fame, c’ho sete, c’ho male alle gambe a furia di camminare”, e qualcuno lascia cadere una moneta, mentre altri sorridono e vanno dritti, e dritti dritti con tutti i loro diritti e doveri continuano a smarrirsi come le pecore e le capre che si spingono vicino a un burrone, e un burrone c’è davvero da queste parti, ci buttano dentro la spazzatura, in passato uno c’è finito con la macchina e c’è morto. Niente, manco i morti riescono a fare prendere provvedimenti; il burrone è là, a portata di tutti, ci potrebbe cadere dentro chiunque e, forse, è meglio così.

Politica di rassegnazione, la tua propaganda comincia da un supermercato e abbraccia ogni anfratto del creato; il mondo è rappresentazione della volontà di ciascuno… ora andrebbe presa a calci in culo l’estate, tutta questa forzata spensieratezza fa male.

 

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