Perché scrivo. La confessione di Joan Didion

Perché scrivo. La confessione di Joan Didion

Recensione di Antonio Maria Porretti

La necessità di scrivere pari a un respiro, a un battito cardiaco. Di vedere nello spazio in bianco di una pagina o di una schermata, la miglior palestra per i propri sensi. Di rintracciarsi attraverso i loro esercizi di allenamento per sentirsi soggetto vivo: Io.

Se avessi avuto in dono almeno un minimo di accesso alla mia mente, non ci sarebbe stata ragione di scrivere. Scrivo solo per scoprire cosa penso, che cosa guardo, che cosa vedo e che cosa questo significa. Così la Didion nel saggio che dà il titolo a questa raccolta di suoi brevi testi ancora inediti in Italia e proposti – molto opportunamente aggiungerei io – dalla casa editrice Il Saggiatore, grazie alla traduzione di Sara Sullam.
Perché scrivo
, ossia non una domanda, ma una affermazione alla quale – volendo- si potrebbe anteporre un “Ecco” rafforzativo. Per chi non avesse mai letto nulla di lei, voce e espressione fra le più dinamiche e autorevoli della recente cultura americana, questa antologia possiede il pregio di offrire una panoramica quanto più esaustiva del suo stile. Di una coerenza e organicità della sua scrittura espresse fino all’ultimo dei suoi giorni, mai scalfite neppure dai devastanti lutti familiari che dovette affrontare nell’ultima e più drammatica stagione della sua vita, ovvero la scomparsa improvvisa per un arresto cardiaco del marito John Gregory Dunne, in memoria del quale scrisse “L’anno del pensiero magico” ( 2005) e “Blue Nights”( 2011) , resoconto della fase terminale di una leucemia che stroncò la vita di sua figlia Quintana.

Organicità e coerenza dovute alla fede verso un solo dogma che governò sempre la sua scrittura, soprattutto in ambito giornalistico: il rifiuto di una oggettività assoluta. O per meglio dire, il riconoscimento e l’ammissione dell’impossibilità di raggiungerla. Che si tratti di narrativa, articoli, réportages, testi autobiografici o saggi, il vero e unico soggetto resta sempre la situazione. Rispetto alla quale Didion si posiziona sempre in modo defilato, un po’ di sghembo. Una scelta che mi ha ricordato i dipinti di Degas, nei quali la cornice diventa orlatura di servizio a uno squarcio di verità labile in quanto soggettiva.

Similmente, Joan Didion organizza e struttura le sue frasi, scegliendo le parole da immettervi, in base alle sue reazioni rispetto all’esperienza di cui è partecipe o testimone. Instaura una sorta di conversazione per immagini con noi lettori, simultanea a dispetto della separazione di spazio e tempo. Ed è quasi impossibile, a mio avviso, non lasciarsi agganciare dalla forza e l’energia del suo racconto. E pertanto invito a leggerla per provare in prima persona.

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