Parole per un amico lontano

Parole per un amico lontano

Racconto e foto di Martino Ciano

Siediti con me che ancora non è l’alba. Abbiamo tempo per rimpiangere e per inseguire ciò che non si è avverato, per renderci vivi e per tornare a casa ancora salvi. Se poi si alzassero le onde del mare, mi lascerei prendere insieme a te.

Seduti sullo scoglio lambito dall’acqua, ci facciamo incantare da questo movimento eterno, e quel tempo che non è più nostro, che immaginiamo e che ci ha respinto, balbetta nomi a vanvera.

Non siamo le sue uniche vittime… ora so che puoi capirmi. Era un giorno come questo, in cui la noia aveva un nome, il mio nome, e cercavo il bastone che la scuotesse, che la scacciasse, affinché la gioia venisse a prendermi e a rinnovarmi una promessa. Proprio non sopportiamo che il tempo scorra anche quando non lo riempiamo di noi, della nostra sostanza. Proprio non accettiamo d’esser messi da parte, perché ci consideriamo vivi, pimpanti, e l’Universo deve tenerci sempre in considerazione. Ecco, così mi sentivo.

Quel giorno ho visto te piangere poco più distante dallo scoglio sul quale ero seduto. Ti disperavi per qualcosa, forse per essere vivo e per non aver capito come si affrontano la noia e la gioia, come si inscrivono i propri segni nei cieli della quotidianità. Provai a farti capire, restando al mio posto, che non eri solo. Imbracciai la chitarra e improvvisai una melodia, perché quello sapevo fare e quello ho fatto. Ti sei seduto, mi hai ascoltato, hai acceso una sigaretta e hai scoperto che lì non eri solo, che avevo ascoltato il tuo lamento. Ti parlai attraverso la musica e diventammo amici per mezzo di quella melodia improvvisata.

Io voglio esserci ora e per sempre… ora ti capisco, perché ho appreso quanto è doloroso sapere che ci saranno giorni senza di noi, che il mondo continuerà la sua corsa e che non ci lascerà indenni dalla dimenticanza in cui altri ci getteranno. Allora è meglio scrivere e gridare che “tutto è vanità”, anche la pretesa di non scomparire e di non essere dimenticati. Sono vane e vanitose queste parole?

Vent’anni sono passati da quel momento… era una notte di febbraio in cui intorno riposava il silenzio e ogni rumore era simile a un fragore. Oggi non so più imbracciare una chitarra, né immagino me sullo scoglio. Penso però che una traccia di noi sia rimasta lì, riposta in un invisibile deposito.

Non ci sei più, amico mio… un giorno un’auto ti prese in pieno e sei morto dopo due ore di agonia. Da allora, quando il tuo ricordo mi viene in mente, concludo sempre il mio discorso mentale dicendo: mai saprai cosa vuol dire invecchiare senza un amico e sentirsi sopravvissuti.

Ma forse è vanità anche questa pretesa di parlare ai morti.

 

 

 

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