Past lives. Destini non vissuti
Recensione di Antonio Maria Porretti. In copertina la locandina del film tratta dal web
Past lives: storia di un legame che perdura nel tempo, seguendo i sentieri della separazione, dell’assenza, della lontananza dai luoghi che ne hanno determinato la nascita. Questa, in breve, la sinossi del film di esordio di Celine Song, regista di origine coreana ma americana di adozione, presentato durante l’ultima rassegna del Sundance festival, e dal 14 febbraio in programmazione nelle nostre sale.
Una data emblematica quella scelta dal distributore italiano, sebbene non rientri nei canoni di una vicenda ad alta intensità di passioni, piuttosto di tenerezza e unione fra anime le cui traiettorie a un certo punto divergono, fino a porle a distanze continentali.
No Yung e Hae Sung intrecciano la loro relazione sui banchi di scuola a Seoul, quando entrambi cominciano a sfiorare le vibrazioni più intense della vita. Ma i genitori di lei hanno piani e aspettative di altro tipo, decidendo di trasferirsi in Canada, dove sperano di trovare migliori opportunità di carriera, rinunciando a tutto il loro passato. Anche al nome, cambiando in Nora quello di No Yung.
Passano dodici anni, ed è proprio lei che quasi per gioco ristabilisce un contatto con Hae tramite il ricorso alle piattaforme virtuali, dando inizio a una frequentazione fatta e alimentata da videochiamate, mail, messaggi . Tutto per riscoprire e recuperare quel filo che li annodava. Attraverso uno schermo, ognuno si protende verso l’altro con pudore e rispetto, ma altrettanta sincerità di sguardi.
Prima di rincontrarsi dal vivo dovranno però trascorrere altri dodici anni, quando ciascuno sarà già approdato ad altre scelte sentimentali: Nora incontrando il suo futuro marito, Arthur, in una residenza artistica per scrittori; Hae accomodandosi in un fidanzamento ufficiale che lo mantiene in Corea, assuefatto a una routine sentimentale e lavorativa dalle prospettive se non altro rassicuranti.
Il loro incontro durerà quarantotto ore, due giorni sufficienti per ritrovarsi, ma soprattutto per accorgersi e scoprire quanto siano cambiati. Quali scelte ne abbiano mutato l’immagine con cui si ricordavano, ma non al punto di averla rimossa. Per quanto scalfiti, sorpassati e anacronistici rispetto a quel “come eravamo”, non si sono del tutto perduti. Nei loro ricordi, ha trovato spazio e si è edificata una fortezza. Inespugnabile.
C’è un principio buddista attorno a cui ruota e si impernia questa storia. La lingua coreana lo indica con la parola In Yun: predestinazione, e si applica alle sole relazioni umane. Nora e Hae sono predestinati l’una all’altro per effetto di una unione che nasce da vite passate e proseguirà nel futuro, malgrado le scelte e le svolte impresse alle loro vite, nonostante non si riconoscano più in quel che erano ieri. Distaccandosene ma senza rinnegare.
E credo che sia proprio quest’ultimo aspetto il punto di maggior forza e coinvolgimento della pellicola. Sto per esprimere ora qualcosa che attiene alla mia sfera personale, ma che forse potrebbe dar voce anche a più di qualcuno: più di una volta nella mia vita ho provato (e continuo a provare) un senso, un sentimento di non appartenenza nei confronti del mio passato. A volte ne parlo come se mi riferissi ad un’altra persona, conosciuta certo, ma che non sono più io per come accado oggi. O vorrei accadere in un altrove che sia pure appena percepito, che riconosco come mio fulcro ed essenza.
Chiusa parentesi e torniamo al film. Diversamente da alcuni commenti affiorati alle mie orecchie una volta riaccese le luci in sala, non l’ho trovato affatto lento. Non è un thriller, né un film d’azione. La quotidianità di solito non ha quei ritmi e tempi così serrati. Non sempre.
Celine Song lascia campo libero a pause e silenzi per narrare tutta la delicatezza di un amore non vissuto; per cesellare al meglio la filigrana psicologia e emotiva dei suoi protagonisti. Ottimamente coadiuvata dal trio di attori con cui ha voluto dar vita a uno dei più originali film di questa stagione: Greta Lee (Nora), Teo Yoo (Hae Sung), John Magaro (Arthur, marito di Nora).
Basterebbe vederli nella scena di apertura in cui sono seduti tutti e tre dietro al bancone di un locale – inevitabile il richiamo a “I Nottambuli” di Edward Hopper – per rendersi conto, ammesso che ve ne fosse bisogno, di quanta energia e verità possano essere scolpite in un non detto.
Immagino di aver poco da aggiungere sul mio livello di apprezzamento del film. Uno dei più emozionanti e coinvolgenti visti in questo inizio di anno. Molto più del blasonato “Perfect Days” del maestro doppia W doppia W, troppo in odore di opera sapientemente costruita e pianificata al tavolino, per far gridare al “capolavoro”. Molto più del tanto celebrato “Povere Creature“, pastiche pseudo gotico – horror, pseudo mega produzione di marca disneyana, ma con quel tocco di engagé che non guasta e fa tanto inclusione, pseudo manifesto post-femminista di donna che si fa strada nel mondo sfruttando il proprio appeal sessuale, realizzato da un Lanthimos in furor di grandangolo, ben lontano dalle vette raggiunte con “La Favorita”.
Chiusura in polemica-andante con brio, non lo nego, ma che a mio avviso ci può stare.