Al prossimo giro di “cultura”

Articolo di Martino Ciano. Foto di Pina Labanca
Ognuno di noi se ne stava sepolto, restando inchiodato alla propria sedia, come se l’universo iniziasse e finisse lì, tra quei quattro piedi di plastica. Di fronte c’era lo scrittore, un disgraziato che manifestava la sua presenza con parole e gesti. Spazzava l’aria con la mano sinistra, mentre con la destra impugnava il microfono, quel piccolo aggeggio che somigliava a una canna di fucile fumante.
Esplodevano intorno a lui la retorica, le stelle della decadenza e le parole dell’inutile dire e ripetere; e forse ripetere era l’unico lasso temporale esistente, un andirivieni di lancette emozionali, di pensieri zoppi e con le gambe storte. La società corrotta, il bene comune, la difesa strenua di un Governo passato. C’era anche un moderatore che con la testa affermava e mai negava, e anche se avesse negato non sarebbe riuscito a comunicarlo.
Ed eccoci nella bolgia, tra una voce morente e una ilare mondanità. La cultura sbadigliava, il sapere si addormentava, tutto era come il giorno prima. Ipotizzare è possibile, soprattutto se l’allegria dimostra di essere assonnata. Sorridi stronzo e dimostra di averci capito qualcosa. “Accatatevi stu libbru e leggete di pancia e di cuore – diceva un astante tra dialetto e italiano smorzato – ‘sta storia inzegna…”, poi nessuno lo ha più ascoltato. Avrebbe dovuto dire qualcosa di pungente.
Se ci fosse stato un omicidio, un assassinio, un evento sul quale spettegolare. No, niente da fare. Siamo rimasti soggetti di un pubblico inventato, poco percepito, dimenticato, celato come capelli tra la nebbia.
Che è rimasto? Forse, una traccia indicizzata su Google.