Il padre
Racconto di Giuseppe Bella. Foto di Martino Ciano
“Dalla tua poltrona governavi il mondo”.
Franz Kafka
Appena entrato in casa, lo vide; in fondo al corridoio, il corpo in penombra, il viso illuminato dalla fiamma vacillante di una candela, il padre si dondolava con la mano appoggiata allo stipite della porta.
Appariva come sempre, sparuto e trasandato, e pestava i piedi, prima l’uno poi l’altro, rapidamente, come volesse correre ma una forza lo frenasse. A metà del corridoio, si intese un mugugno, forse un lamento, una nota aspra e nasale, di muta sofferenza. Chi si dimenava lì dentro?
Tentò la porta. Era chiusa. Era la camera interdetta. Tornò a scrutare dove suo padre era apparso. C’era tenebra – nient’atro. Si piegò su se stesso accasciandosi a terra: e lentamente strisciò verso la sua stanza. Si arrampicò sul letto.
Dal cuore della notte era germogliato cupo e verticale un verde; ricadeva ondulando dalla sommità di un muro di pietre crude. Fissava assorto quel verde. Adesso volava, era un insetto e avidamente si avventava su un bocciolo; non era ancora penetrato in quella carne vegetale, quando un liquido vischioso lo travolse. Ne fu sommerso.
Fuggì dal sogno agitando tuttora gli arti in un parossismo di agonia. Per qualche istante non realizzò di essere già sveglio e con gli occhi, nel buio, cercava quel muro, se quell’infido verde gli tendesse altri inganni. Palpò con timore il suo corpo, da capo a piedi, costatandone, nondimeno, l’inviolata sostanza.
Desiderava suonare. Si alzò dal letto, sollevò la serranda. Il sole sfavillava. Sedette davanti al pianoforte. Percorreva a caso i tasti con le dita: e si levava una melodia stonata ma non aspra. Così, seguendo il suo trasporto, rievocava la nostalgia di ogni giorno, quella nostalgia che risvegliava sempre in lui una passione senza freni, però oscura nel suo oggetto: forse era l’ardente desiderio di annichilirsi nell’incoscienza più buia, da cui non c’è ritorno, che poco a poco si mutava nel desiderio di rivedere quei fantasmi, i quali, quando dall’oscurità, quando dalla luce, a volte gli apparivano, mai per consolarlo, ma inasprendo il bisogno che egli aveva di loro – figure care, perdute per sempre. Le note del pianoforte si erano composte in un’armonia cupa e straziante, cominciarono poi ad affievolirsi, fino a che, bruscamente, non gli si spensero sotto le dita. Si abbandonò sulla sedia, madido di sudore, tutto tremante.
Udì a un tratto il calpestio dei passi di suo padre, esitanti. Trasalì: mai era accaduto, in pieno giorno. Andò alla porta, scrutò il corridoio in entrambi i versi, lì dove stagnavano ombre sempre più blande. Nessuna entità vi si scorgeva. L’essenza di suo padre, se pure c’era, non era diversa da un’impercettibile larva. Quel noto passetto tuttavia era stato forte e distinto: e tornava chiaro ora, nella sua mente, il ricordo di come il vecchio usasse aspettare il suo rientro, sera dopo sera.
Il cervello di suo padre si era corrotto, da tempo. Si figurava disgrazie appena il figlio usciva di casa. Tremava, balbettava, si avvolgeva in spire di dolore. Si torceva le mani, si poneva di guardia. Come egli apriva la porta, avviandosi verso la sua stanza, il padre lo seguiva con allucinate movenze di manichino; spiava con insistenza i tratti del suo volto; non gli dava tregua, mai.
Tornò alla sedia. Non aveva più voglia di suonare. La casa si riempì di silenzio. Ma di nuovo i passi e, sempre più accosto, un respiro ansimante. Si alzò, andò di nuovo a controllare. Cessarono quei rumori. Si turò le orecchie. Gli parve che la luce del sole, che cresceva di ampiezza in un tratto del corridoio, si facesse più intensa.
Dalla porta della stanza inaccessibile, da ogni suo spiraglio si diffondevano fasci di luce incandescente. A un tratto si aprì la porta. Nell’immenso fulgore che colmava lo spazio della stanza si stagliava appena distinguibile una forma. Forse umana. Vibrante, ferma, imponente. Egli contrasse i muscoli, pronto a slanciarsi. Ma qualcosa gli bloccava i movimenti.
Restò così, straziato dal desiderio e tuttavia impotente, per la durata dell’intero giorno. Poi vennero le ombre. La porta si richiuse. Scendeva la sera e come ogni sera sarebbe uscito di casa. Avrebbe vagato senza meta nel quartiere. Non avrebbe incontrato nessuno. Nessuno avrebbe alleviato la sua pena. Sarebbe continuato così in eterno. L’avrebbe potuto salvare l’oscura forza che comandava a suo padre di apparire e alla porta di aprirsi – se a un certo punto questa forza avesse stabilito che lui era finalmente degno di bruciarsi nella luce immensa.