Nope. Gli alieni di Jordan Peele siamo noi stessi

Articolo di Gianni Vittorio

Jordan Peele mette sempre in scena film stranianti, mescola diversi generi ma poi li riadatta alle sue inclinazioni. Anche questo Nope è straniante, un po’ fantascienza, un po’ horror con ambientazione western. Già l’incipit del cavallo al galoppo ci fornisce alcune indicazioni di quello che vedremo in seguito (il riferimento è relativo al fantino di Muybridge), ossia l’antenato del cinema dei Lumiere.

Siamo dentro un set hollywoodiano, ed i due protagonisti (sorella e fratello di colore), cercano di guadagnare qualcosa dai loro animali facendoli partecipare a degli show televisivi, ma poi la narrazione si sposta attorno al ranch. Perché è proprio lì che si nasconde l’ignoto, vicino alle colline limitrofe. L’alieno o ufo che dir si voglia diventa il nemico da combattere, l’essere che odia essere osservato ed ingannato dalla rappresentazione: cavalli veri e finti, immagini che simulano la realtà.

Per tutta la durata della pellicola assistiamo ad una guerra di sguardi tra chi guarda e chi è osservato. Il “disco volante” viene rappresentato (a differenza del classico movie fantascientifico) come un gigantesco bulbo oculare che divora gli spettatori che assistono alla scena, quasi rendendo possibile ciò che le persone desiderano intimamente: possedere l’immagine e farsi ingannare, superando il confine tra la realtà e la sua rappresentazione. Il vero eroe della storia non è però il OJ (Daniel Kaluuya), ma il regista impersonato da Antlers Holst, l’unico davvero in grado di profanare l’occhio alieno e fondersi con lui.

Nope è un film sull’immagine e sulle finzioni del cinema, infatti dietro l’intrattenimento di genere Peele nasconde sottotraccia una seria riflessione sul commercio tra la realtà e la sua rappresentazione. Pertanto, nello stesso tempo, assisteremo a una critica feroce alla società dello spettacolo, a un business alimentato dagli spettatori affamati di immagini.

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