Non è casa mia

Non è casa mia

Racconto di Wanda Lamonica. In copertina una foto di Giuliana Moscovini

“Non è il mio posto, questo, signora. Non è il mio solito parco. Elisa non mi porta mai qui. Mio nipote forse non lo sapeva. È lui che mi ha accompagnata. Chiamatelo. Sì. Chiamatelo. Che lui ha un ufficio. E un telefono che suona sempre”.

Lea è agitata. Vorrebbe scappare ma le sue vecchie gambe non sono d’accordo.

“Si sieda qui, Lea. Fa fresco, non trova? Mettiamo questo bellissimo scialle?” chiede la donna-azzurra poggiando sulle spalle dell’anziana signora uno scialle di lana morbida.
“Non voglio sedermi. Non ho nemmeno il mio cuscino. Ha ben 18 mattonelle quadrate fatte all’uncinetto, il mio cuscino, sa?”.

Lea si guarda attorno, confusa. Ha un sussulto ogni volta che qualcosa di sconosciuto la turba profondamente. Le trema il mento. Il suo bastone da passeggio, ora, è soltanto un punteruolo con cui poter bucare un mondo cattivo.

“E poi la mia panchina ha un segno inciso con una chiave. Me l’ha fatto Pinuccio mio. Un cuore, sa? Intagliato con la chiave del portone della nostra prima casa”.

Sorride, inclina la testa. Bacia la medaglietta che porta sul petto, con la piccolissima fotografia dell’uomo che ha amato per 54 anni. La lucida con il pollice.

“E poi qui non ci sono i miei bambini. Ci sono solo vecchietti come me. Al mio parco, invece, c’è Paolino che mi porta la palla, Amelia che alle 10 in punto mangia la frutta frullata, seduta nel passeggino. (Sta imparando a usare il cucchiaino da sola, sa? ). E devo preparare le molliche di pane per Rodolfo, altrimenti i piccioni non ci vanno mai da lui. Eh.”

Un lampo di gioia illumina per un attimo il suo sguardo. “Guardi, mi lasci pure fuori da quel cancello. Mi appoggio al muretto e aspetto Elisa. Verrà. Elisuccia verrà”.

Lea vuole raggiungere il cancello. Costruisce ogni singolo passo appoggiandosi saldamente al suo bastone di legno. Mastica a vuoto per digerire meglio lo sforzo. La donna-azzurra la sostiene meglio che può.

“Lea, entriamo. Aspettiamo dentro. C’è una signora che vuole conoscerla”.

Lea è visibilmente stanca. Sfinita, si lascia guidare dalla donna-azzurra. Insieme raggiungono una camera al primo piano di un grande edificio giallo. C’è l’ascensore.

“Elisa ha paura dell’ascensore, sa? E io per mia figlia salivo e scendevo le scale pur di non lasciarla mai sola, sa? Adesso non posso più seguirla. Le gambe non ce la fanno. Lo devo prendere per forza l’ascensore. Ma appena le porte si aprono, io l’aspetto al piano di casa nostra e le canto Gioia mia, per tenerle compagnia finché lei sale su. Una mamma le fa queste cose, sa?”

La donna-azzurra e Lea raggiungono la stanza numero 23. Due letti, un tavolo, tre sedie, un armadio di metallo, un’orchidea finta.

“Adele, ecco Lea”, annuncia la donna-azzurra. Adele è una vecchina minuta, seduta davanti alla finestra. Guarda lontano. Poi si gira verso le due donne. Sorride. Le mancano due denti. E soprattutto l’allegria.

“Siediti, Lea “, dice indicando la sedia vuota. Lea si siede, sospira. Comincia anche lei a guardare lontano abbracciata stretta stretta al suo bastone.

“Posso stare davvero poco qui”, si giustifica Lea.
“Mia figlia Elisa verrà a prendermi tra non molto. Questo non è il mio letto, non è casa mia. Non è il mio parco. Non è la mia vita”.

Un tintinnio di posate annuncia la cena.

“È quella nuova?”, chiede la collaboratrice Rosa all’uomo-azzurro, alle prese con le scodelline di purè.
“Già. È Lea”, risponde l’uomo-azzurro Francesco. “Aspetta sua figlia Elisa. Non sa ancora che non c’è più. E che il nipote non ha tempo per lei”.
“Vado io da Lea”, dice Rosa, prendendo un vassoio con il cibo caldo e una mela cotta.
“Che c’ho ancora il vizio dell’umanità, Francè”.

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