Ninna Nanna. Leïla Slimani e la sua “dolce canzone”
Recensione di Antonio Maria Porretti
Meglio non farsi ingannare dal titolo, perché di ” dolce ” in questo romanzo, vincitore nel 2016 del Prix Goncourt, vi è ben poco. Tanto meno Louise, la protagonista, una babysitter di mezza età, la cui vita frana sempre più inesorabilmente nella voragine di una solitudine senza scampo; segregata in un angusto e squallido alloggio della Banlieue parigina, dal quale fugge ogni giorno per riversarsi nel centro della città e offrire la sua opera di assistenza a famiglie più o meno benestanti, sempre troppo stressate e oberate da impegni improrogabili.
La sua indiscussa e specchiata efficienza e il suo talento prodigioso nel far fronte a ogni contrattempo e emergenza fanno di lei il prototipo della bambinaia ideale, quella che ogni genitore sognerebbe per affidarle i propri figli.
Attenta, scrupolosa, sempre disponibile, maniaca dell’ordine e della pulizia, Louise non lesina le proprie cure nemmeno alla manutenzione della casa che la accoglie e ospita, quasi fosse un altro bambino da accudire. Del resto, non ha altra ambizione se non quella di rendersi insostituibile agli occhi dei suoi datori di lavoro; essere un surrogato di amorevoli premure materne da somministrare incondizionatamente, instancabilmente.
Una novella Mary Poppins che però non vorrebbe mai volare via e che accetterebbe qualunque condizione, pur di non svestirsi della divisa di mansueta e fedele ancella e tornare nel nido nero della sua esistenza. Un desiderio, un sogno che prima o poi è convinta di realizzare.
La troverà quella famiglia che un giorno farà di lei la guest-star del proprio ménage, in una idilliaca sit-com tutta da realizzare. E quando Louise si insedia nel nell’appartamento di Paul e Myriam Massé, è convinta di averla finalmente trovata la sua Happy Family.
Ancora una volta, con inesausta e fiduciosa perseveranza e pazienza, un mattone dopo l’altro, ricomincia a ricostruire quel castello di aspettative che troppe volte in passato le si è sbriciolato sotto gli occhi.
Ma quando la melodia del carillon azionato dalla sua mente verrà ancora una volta bruscamente stoppata da una partitura che non prevede più la sua partecipazione, la follia esploderà, senza limiti.
Perché è di questo che si parla nel romanzo: di dipendenza morbosa, ossessione patologica, emarginazione, abbrutimento esistenziale, identità negata; quali possono celarsi anche dietro la maschera di un volto remissiva, inoffensivo. Proprio come avviene in tanti casi di cronaca nera.
Una materia narrativa incandescente e magmatica dunque, ma che la scrittura della Slimani restituisce depurandola da ogni eccesso voyeuristico, eludendo abilmente le trappole che potrebbero far virare la storia verso le atmosfere e i toni di uno smaccato romanzo di genere, evitando soprattutto intromissioni di carattere personale, o tentativi d’indagine di antropologia urbana.
Nella miglior tradizione del romanzo naturalista francese, l’autrice si predispone a inquadrare scene e personaggi con occhio imparziale, mai giudicante, riavvolgendo la moviola di un racconto che parte dalla fine e procede a ritroso, per poi sfumare appena prima che l’orrore abbia inizio. Un atto di compassione o boicottaggio forse, verso episodi che troppe volte accadono realmente.