E poi nessuno è ritornato…

E poi nessuno è ritornato…

Articolo di Martino Ciano. Foto di Pina Labanca

Ti sei sentito a disagio la prima volta che hai indossato la cravatta, ti rendeva troppo milanese e tu eri uno “scappato” dal paesello in cui amavi essere cafone. Cafone vero, di quelli che ne hanno coscienza e che la mattina parlano con i porci, le galline e le capre; cafone autentico, figlio di un padre e di una madre con le mani sporche di terra, con la parlata dialettale che il tempo non sa tradurre e non sa preservare. E quando hai messo piede a Milano a quello pensavi, a ciò che avevi lasciato a mille chilometri di distanza, alle albe annunciate dal canto del gallo, alle quattro stagioni cadenzate da certi riti più pagani che cristiani, ma pur sempre accompagnati da una preghiera a Gesù Cristo e alla Madonna, o rivolta a qualche Santo che era più potente di loro in certe occasioni, perché si era presa la briga di specializzarsi in una sola materia, e magari lì, nel Paradiso, avevano pensato di promuoverlo alla carica di “unico e indiscusso protettore”.

Così quando andasti al lavoro in giacca e cravatta ti sei sentito davvero strano, come colto da una malinconia senza nome che mai avevi provato. Anche perché non ti aveva ancora stretto il collo la malattia del mutuo a tasso fisso, della rateizzazione che esaudisce ogni desiderio, del consumo di beni non necessari o di bevande che nulla avevano a che fare con il vino fatto in casa. E poi neanche ci pensavi a certe parole condite da termini anglofoni come shopping, farm, wellness, beauty e dinner. Ti piaceva andare a puttane, questo sì, ché una ragazza non riuscivi a trovarla. Tu non avevi grosse pretese, semplicemente provavi vergogna e desiderio per quella carne che potevi scegliere come mai avevi potuto fare.

Vero è che questo accadeva anche a mille chilometri di distanza. Ti eri laureato a cento chilometri da casa tua, si parlava del mondo e internet te lo mostrava a modo suo. A te piaceva, ma solo guardarlo; restavi comunque ancorato alle tue verità, alle tue tradizioni, proprio perché certe verità, in certi luoghi, sono tradizioni. Per te la vita era casa tua. Ruttare dopo mangiato in segno di gratitudine verso tua madre che aveva cucinato era un gesto poetico. E ti piacevano anche le femmine del tuo vicinato, solo che loro si erano fidanzate presto e attendevano il matrimonio, non si erano messe a studiare. Avevano pensato a cose pratiche, a sogni a portata del loro censo. Le scalate le fa chi si illude di essere immortale. Solo due ci avevano provato, ma si erano ritirate a casa dopo poco per dedicarsi alla cucina. “Fatica persa – diceva tua cugina – poi muori e lasci tutto qui”. Questa cosa ti fece incazzare, l’emancipazione era una cosa seria, tu la sentivi nel corpo e nel cuore, ma in quel paese che tanto amavi cuore e corpo si lasciavano affascinare dai tramonti e da un tranquillo silenzio interrotto dai manifesti funebri.

La prima volta che ti sei messo addosso giacca e cravatta non hai capito di che epoca tu fossi, ché da una parte rimpiangevi casa tua e dall’altra la disprezzavi. E mentre ti assaliva l’agitazione, visto che da quel giorno avresti dovuto indossare giacca e cravatta tutti i giorni, per decenni, che alla direzione milanese di quella multinazionale era subito piaciuto uno che con i conti ci sapeva fare, tu ricordasti il tempo in cui vendevi le uova con tuo padre: ai poveri le regalava, ai ricchi li ‘mbrusava. Era “falce e martello” lui, sia nei campi che nella vita. “Io pure so’ padrone – diceva – ma non tolgo il pane a nessuno. Preferisco darlo. Sono nato fortunato, c’ho la salute”. E tu così sei cresciuto, con queste idee.

Quando sei tornato la prima volta nel tuo paese, dopo quindici mesi dalla partenza, sei sceso dal treno con il sorriso di chi è uscito dall’ospedale dopo una lunga degenza. Ti sei reso conto che nulla era cambiato e ancora non sapevi se fosse un bene o un male. Era agosto, da qualche parte avevano tagliato l’erba, c’era più gente, ci sarebbe stato anche qualche spettacolo in piazza. I fossi lungo le strade, però, erano dove li ricordavi tu e persino certi sacchi della spazzatura. Pure certe lamentele erano fatte delle stesse parole che avevi sentito prima di partire; c’erano addirittura delle questioni irrisolte di cui tuo padre e tua madre si lagnavano da quando eri bambino.

Arrivato nel tuo paese, nel nido in cui potevi sentirti cafone, ti sei reso conto che uguali a loro stessi erano rimasti solo gli altri, tu ormai eri fuori luogo, imitavi ma non eri più, ché ormai avevi Milano in testa e sulla lingua, persino in certe tue espressioni. Tua madre te lo faceva notare e tu provavi vergogna. Era finito tutto senza che te ne accorgessi, come se una forza inconscia ti guidasse affinché non tornassi come eri, ché altrimenti saresti rimasto lì per sempre, nel tuo nido, cioè la tua tomba. E infatti, quando giunse l’ultima settimana di ferie non vedevi l’ora di partire. Tua madre, tuo padre, le tue sorelle, i tuoi nipoti, i cugini e i vicini ti davano fastidio con i loro discorsi. Tuo padre ti sfotteva: “Milanese, almeno quando muoio mi vieni a trovare?”, ché lui aveva capito tutto: un figlio si cresce e poi si deve perdere, altrimenti ti ruba le donne e la roba.

E tu sei partito. Hai pianto a Milano quando ti è mancato il paese in qualche sera in cui la città ti ha tradito, quando qualche puttana ti è costata troppo, quando qualche amore è servito giusto per riempire la casa per un paio di mesi, quando ti sei reso conto che il tuo destino era legato al premio di produzione. Poi però il dolore è passato, come se il paese fosse stato il sogno di uno smemorato.

Oggi sei un uomo in giacca e cravatta.

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