Nello spazio di due città. Josè Angel Gonzalez Sainz
Recensione di Maurizio Carvigno. In foto, particolare della copertina di “Due.Città” di J. Á. González Sainz, Helvetia, 2022
Il racconto breve è un genere letterario sempre meno frequentato dagli scrittori, nonostante regali, da sempre, attraverso la forza unica della brevitas, emozioni senza tempo, racchiuse nell’attimo di poche, indimenticabili pagine. La brevità è un pregio, un talento prezioso ma anche un’arte che si apprende con la pratica, con la costante applicazione, perché paradossalmente è più semplice scrivere un romanzo sconfinato che un racconto breve.
Per fortuna nell’universo editoriale sempre avido di racconti e, soprattutto, di racconti brevi, esistono delle piacevoli, imperdibili eccezioni, come nel caso di Due.Città, pubblicato in Italia dalla Helvetia, un libro che a partire dal singolare titolo, dove un punto apparentemente privo di senso è superstite in mezzo a due parole, racconta già moltissimo di sé.
A scriverlo è stato Josè Angel Gonzalez Sainz, già professore di letteratura spagnola all’Università Ca’ Foscari di Venezia con un passato da ingegnere mancato, traduttore di Claudio Magris, Ennio Flaiano ma anche di Emanuele Severino, fondatore nel 2016 del Centro Internacional Antonio Machado ma, soprattutto, autore di diversi libri, tra cui Un mundo exasperado, che lo ha reso famoso e gli ha fatto vincere il Premio Herralde e Volver al mundo, il suo romanzo più importante, costruito sullo sfondo della colorata e inquieta generazione degli anni ’70.
Due racconti brevi ma intensissimi, due lacerti letterari che, come scrive Gonzalez stesso nell’introduzione, «rispondono a progetti di libri naufragati nella tempesta del tempo e della prepotenza d’altri compiti». Due racconti diversi ma saldati indissolubilmente dal due, un numero che da sempre segna indelebilmente la vita di Josè Gonzalez, perché tutto il suo lavoro scorre sotto l’insegna di quel numero: «Due paesi, due vite, due lingue, l’andare e il ritornare.»
Ma più di tutto, a legare i due racconti c’è uno spazio urbano, quello di due città, affacciate entrambe sul medesimo mare, Trieste e Venezia, le città italiane dove Gonzalez ha abitato, insegnato, intensamente vissuto, quinte inevitabili del suo libro, forse, le assolute protagoniste.
Il primo dei due racconti, Una leggera differenza d’espressione, titolo poetico e bellissimo, è ambientato a Trieste, «una città che è tutte le città», con la montagna che la prende «alle spalle e il mare che le entra in faccia» dove il vento, presenza temuta e anelata al tempo stesso, assomiglia a «un avviso reiterato.» Ma anche una città attraversata dalla storia che non finisce di passare, «che è come in ritardo, come se volesse ancora darci tempo per qualcosa.»
In questo spazio fisico, teatro dell’eterna contesa tra Poseidone ed Eolo, il protagonista del racconto, narrativamente sfumato, percettibilmente abbozzato, ci arriva per errore, sbagliando binario, salendo su un treno che invece di condurlo nella palladiana Vicenza, lo fa approdare nella città dove il sole tramonta a est. Già da questo primo racconto si percepisce chiaro il talento narrativo di Gonzalez, la cui cifra sta soprattutto in una scrittura delicata, piacevolmente sospesa, rugiada che riluce nell’attimo in cui è accarezzata da un timido raggio di sole.
Sullo sfondo di Trieste si perdono le tracce di un architetto spagnolo che improvvisamente e senza un apparente motivo, lascia Madrid per la città che fu di Svevo, di Saba, di James Joyce, accettando «uno stipendio infimo, come se si fosse appena laureato, in un piccolo studio della città.» Un uomo di cui sappiamo poco o forse moltissimo che paradossalmente trova pace nell’inquietudine e inquietudine nella tranquillità, chimera bulimicamente bramata.
Una misteriosa scomparsa, nonostante qualche avvisaglia spagnola e un senso di non detto evocato nel piccolo paese di Prosecco, davanti un bicchiere di trebbiano, seguito da una leggera differenza d’espressione. Una sparizione «che non sembra lasciare dubbi e nello stesso tempo li fa venire tutti insieme»; una scomparsa che appare senza movente, leggera, imprevista e imprevedibile anche se poi le cose più inaspettate sono, molto spesso, le più ipotizzabili, da ricercare in una frase appena accennata, in un sorriso timorosamente accennato, da scovare nelle curve della vita, somiglianti a quelle che dal Carso degradano gentili verso il mare, dove tutto inizia, dove fatalmente ogni cosa termina.
Il secondo racconto, intitolato L’altra strada, ci porta a Venezia, ancora una città adagiata sul mare, seppur nelle vesti azzimate di una placida, letteraria laguna. Una città dal passato solenne che si riverbera nei canali e nelle pittoresche calli, in una punteggiatura urbana che rende Venezia nostalgicamente unica, affascinante e inospitale, dove il provvisorio è permanente e «il permanente per altro verso tanto provvisorio, tanto delicato e instabile, per lo meno in apparenza.»
E proprio le calli, «alcune morte che non vanno da nessuna parte» sono le silenti amiche che accompagnano fedelmente il protagonista del racconto, monotone tappe sempre uguali, ad eccezione di una calletta solitaria che per la sua posizione, per il suo essere poco frequentata, seduce, affascina, provoca, diabolicamente tenta. «Non c’è giorno che non mi interroghi su di essa, che non mi lasci suggerire qualcosa, che non rimugini sulla possibilità di imboccarla o non mi faccia eco delle sorprese che mi potrebbe offrire o delle facilitazioni che potrebbero venire incontro; e non passa giorno che non mi inibisca o mi spaventi anche al solo fatto di guardarla, di immaginare dove porta e quale strada segue e a quali inclinazioni andrei incontro percorrendola.»
Una strada ignota, piccola ma al tempo stesso sconfinata, metafora della vita, perché, prima o poi, un bivio arriva per tutti, zavorrato dal corollario di inevitabili scelte. Quella calle affiora nella mente del protagonista all’improvviso, esercitando «un’attrazione schiva come una segreta affinità, maligna e inopportuna, ma potente, ineludibile.» Una presenza incessante e tormentata che eccita, abbaglia, financo allo sfinimento, determinando una dissociazione tra realtà e illusione.
Da una parte la sicurezza di un cammino scontato ma ben familiare che ha le fattezze di un bacio, di grembiule da cucina, di un pane sbocconcellato, del tintinnare scordato delle chiavi di casa; dall’altra ecco profilarsi il ventre molle di un percorso verso l’ignoto, perché fino a quando abbiamo «una strada o un itinerario e non c’è possibilità di scelta, allora va tutto bene, o tutto va come non potrebbe fare a meno di andare.» Ma quando le opportunità sono più di una, la situazione cambia e tutto diventa più difficile ma anche umanamente più accattivante.
L’altra strada, perfetto da trasporre sul palcoscenico per la sua possente, introspettiva teatralità, è un monologo sugli incroci che la vita inaspettatamente ci para davanti, proponendoci una strada ideale prima ancora che fisica, un’esperienza sensoriale, con tanto di percezione olfattiva che ha il sentore acre dell’umidità, un rovello che dilania il protagonista e noi con lui, tutti proiettati al cospetto di un’anonima via, eternamente indecisi fra la comodità del certo e la magnetica, fobica tentazione di percorrere l’ignoto.