Natale in caserma

Natale in caserma

Racconto di Francesco Papa

La mattina del 24 dicembre 1971 il termometro appeso all’ingresso della caserma dei carabinieri di Grisolia segnava diciotto gradi.

Il maresciallo D’Alessandro, in maniche di camicia, smontava per diletto una penna a sfera mentre ricordava quando, giovane recluta di stanza a Caselle Torinese nel 1956, aveva montato la guardia a venti gradi sotto zero per cinque ore. Osservò con attenzione i suoi polpastrelli che da quel giorno non avevano più riacquistato la sensibilità, mentre ricomponeva con la massima calma e per l’ennesima volta la penna di ordinanza.

Aveva finito di firmare tutti i documenti sulla sua scrivania già da un’oretta. Avrebbe potuto andare tranquillamente a casa. Del resto era il comandante, chi glielo avrebbe impedito? “Il mio senso del dovere” rispose tra sé. Doveva, e nei suoi pensieri calcò sul verbo, rimanere in caserma fino a mezzogiorno. Cascasse il mondo. Era il suo primo anno da comandante, il suo primo Natale da maresciallo, doveva dare il buon esempio. Nel predisporre i turni – operazione della quale di solito non si occupava ma che aveva insistito di voler compiere per l’occasione – aveva fatto in modo di essere in servizio il ventiquattro mattina e il ventisei pomeriggio, così che i suoi sottoposti non pensassero fosse un lavativo o, peggio ancora, approfittasse del suo grado per ottenere ingiusti privilegi.

Eppure l’appuntato Benfatti, un siciliano con una lunga carriera alle spalle in giro per tutta l’Italia, aveva fatto notare al brigadiere Ferro come, al di là della disponibilità del maresciallo a occupare dei turni anche durante la festività, egli avesse fatto in modo di tenersi libero sia per il cenone della vigilia che per il pranzo di Natale.

Il brigadiere aveva liquidato le affermazioni dell’appuntato come banali malignità, di certo però la presenza del maresciallo in caserma proprio in quei giorni gli creava un po’ di problemi in relazione a una sua vecchia abitudine. Avrebbe dovuto quindi trovare il modo per compiere il suo dovere di uomo ancor prima di carabiniere nonostante la presenza del maresciallo. Appoggiato alla balaustra del balcone guardava incuriosito la preparazione del grande presepe in Piazza.

La scena che aveva davanti si riproponeva a ogni festa comandata. Il sindaco, Felice Manzella, e il parroco, Don Santino, mettevano su il solito teatrino. Il sindaco, braccia ai fianchi, neanche fosse un gerarca fascista anziché un giovane sindaco comunista, urlava contro il prete, colpevole, a suo dire, di organizzare manifestazioni pubbliche senza le dovute autorizzazioni comunali. Il parroco, di tutta risposta, alzava la voce ben più del sindaco, rivolgendogli vari anatemi che andavano dai più beceri luoghi comuni sui comunisti e finivano puntualmente con il mea culpa per averlo battezzato.

In tutto quel trambusto, a un certo punto un raggio di sole illuminò la mangiatoia colma di paglia in cui quella stessa sera don Santino avrebbe adagiato il bambinello di gesso. Il brigadiere rientrò di corsa. L’appuntato Benfatti era l’uomo giusto per l’idea che aveva avuto.

Le urla del sindaco erano sovrastate da quelle del parroco.

I due operai che aiutavano Don Santino a costruire il presepe di legno in piazza guardavano atterriti e alle prime grida di Manzella erano rimasti fermi, come a giocare alle belle statuine. Uno dei due era immobile con un asse in mano intento a fissare il soffitto della capanna. Quando vide arrivare i carabinieri per non saper né leggere né scrivere scappò mollando tutto e la capanna crollò con un fragore che fece tacere sia parroco che sindaco.

Proprio mentre i due operai si dileguavano per le vie del paese, Il brigadiere Ferro si presentò dinnanzi alle due massime autorità del paese per reprimere quella che sarebbe potuta diventare una rissa belle buona, conoscendo il temperamento sanguigno di entrambi. Se delle cattive intenzioni di Manzella non c’era da stupirsi vista anche l’acredine che egli provava nei confronti della Chiesa e soprattutto del parroco, reo di aver esortato i fedeli a non votare per lui dal pulpito durante la predica del venerdì santo, neanche Don Santino era uomo con cui scherzare. Si raccontava infatti che in tempo di guerra da cappellano militare avesse più volte lasciato il rosario per imbracciare un fucile. A detta sua per difendersi dagli usurpatori stranieri, ma più di un compagno d’armi era pronto a giurare che lo facesse con una certa voluttà.

Così il sindaco non era il solo a dover essere tenuto a bada e il brigadiere lo sapeva. Si era perciò fatto accompagnare dall’appuntato Benfatti, in modo d’avere braccia forti in caso di una rissa più che probabile.

All’arrivo dei carabinieri sindaco e sacerdote si erano fermati riacquistando entrambi il contegno che ritenevano ideale a ottenere la benevolenza del brigadiere. Gli avventori del bar della piazza che dapprima si erano fermati a osservare la scena sull’uscio del locale, per non essere costretti a prendere le parti di nessuno conoscendo quanto i due sapessero essere vendicativi ognuno nella propria sfera di competenza, si erano avvicinati e ora formavano un semicerchio intorno a quello che restava della capanna.

«Qual è il problema?» chiese il brigadiere senza specificare il destinatario della domanda.

«Il problema è che siamo alle solite – il più pronto dei due era stato il sindaco – questo prete pensa di fare come vuole, come quando c’erano gli altri. Ma adesso ci sono io e si rispetta la legge! Non si può chiudere una strada per un presepe!»

«Miscredente!!!» urlò don Santino raccogliendo un asse di legno da terra e brandendolo verso il sindaco.

Con un’occhiata, senza proferire parola, il brigadiere Ferro ordinò all’appuntato di fermare il prete.

Benfatti intervenne alle spalle di don Santino, disarmandolo. Non fu facile privarlo dell’asse di legno con il quale aveva cercato di colpire il sindaco. Nonostante l’età, infatti, il sacerdote era dotato di costituzione robusta ma soprattutto di una volontà di ferro.

Non appena l’appuntato ebbe la meglio, riuscendo a gettare a terra l’asse, con una presa ferma riuscì a immobilizzare il prete che continuava a dimenarsi urlando, con un pugno davanti piantato davanti al muso del sindaco: «te la faccio vedere io!».

Manzella, di tutta risposta, con i piedi ben piantati a terra e con un sorriso beffardo provocava l’anziano parroco facendogli cenno di andargli incontro.

«Signori ora basta» intervenne il brigadiere «è questo l’esempio che volete dare alla popolazione?».

Il sindaco indietreggiò, mentre il prete continuava a essere minaccioso. Ferro sorrise.

«Signor parroco, proprio voi? In tempo di Natale volete far guerra? Suvvia un uomo di Chiesa… Non ha forse detto nostro Signore a Pietro di rimettere la spada nella fodera?».

A quelle parole don Santino cessò le ostilità, ma rimase comunque paonazzo dando l’impressione di poter ridiventare estremamente minaccioso per un nonnulla.

Ristabilito l’ordine, il brigadiere proseguì allargando le braccia:

«Inutile ricordare a entrambi che se la lite continua sarà mio dovere avvisare il maresciallo, con le conseguenze che potete immaginare».

Ecco il colpo da maestro del brigadiere. Infatti il maresciallo D’Alessandro in quei pochi mesi si era reso protagonista di cacce all’uomo tanto solerti quanto fantasiose. Il torinese, come lo chiamavano in paese, si gettava a capofitto nelle indagini e disponeva arresti e perquisizioni con una leggerezza disarmanti. In quella situazione avrebbe potuto arrestare, dunque, sia parroco che sindaco per disturbo della quiete pubblica senza fare troppi complimenti. E siccome era stato nelle occasioni precedenti proprio il brigadiere a mediare sia con Manzella che don Santino nei confronti dell’ottusamente scrupoloso maresciallo, nel tentativo di tutelare cittadini e fedeli da un cieco giustizialismo.

I due litiganti annuirono seppur con recalcitranza.

«Bene, facciamo così: don Santino continuerà pure la costruzione del presepe come ogni anno, ma invece di prendere tutta la piazza lascerà libero il passaggio e il sindaco stasera va a messa da buon cristiano con la fascia tricolore».

Manzella aprì bocca per protestare, ma venne bloccato dal brigadiere che fece cenno verso la caserma.

«Il maresciallo è nel suo ufficio e non aspetta altro che trovare un passatempo per occuparsi fino a sera, quindi per il bene di tutti io accompagnerò il sindaco in municipio, mentre l’appuntato si è appena offerto volontario per sostituire gli operai e rimarrà qui a fare il presepe con don Santino, così a nessuno verrà un’altra alzata d’ingegno».

Brigadiere e sindaco non si erano allontanati neppure di un centinaio di metri che le urla di don Santino ricominciarono, ma stavolta non erano urla di rabbia.

«Il bambinello, hanno rubato il bambinello!».

In effetti il bambinello sembrava scomparso nel nulla.

Quando l’appuntato era andato a rimettere a posto la mangiatoia lasciata cadere dagli operai, il prete si era accorto che, nella cassa dove erano state adagiate tutte le statue dei pastori, mancava proprio quella più preziosa. L’aveva cercata con un’energia inusuale per uno della sua età. Aveva guardato per tutta la piazza in un lampo, ma dopo quella breve quanto infruttuosa ricerca, si era messo a fare un gran vocio, ben più disperato e  rumoroso rispetto alle grida che aveva rivolto poc’anzi al sindaco.

Così sia Manzella che l’appuntato lo avevano sentito ed erano tornati sui loro passi, ma cosa ancor più grave a sentirlo era stato anche il maresciallo che, alle urla del prete, era scattato dalla sua sedia sugli attenti, neanche avesse sentito la tromba della sveglia in addestramento. “Che cos’era quel trambusto?” si domandò subito.

Scese di corsa per le scale verso la strada, sicuramente c’era bisogno del suo operato. Arrivato in piazza come una furia, il maresciallo d’Alessandro urlò a gran voce: «fermi tutti qualcuno mi spieghi cosa sta succedendo».

Nel vederlo così energico al brigadiere venne la pelle d’oca e un mezzo senso di colpa. Già immaginava che cosa sarebbe successo. Don Santino gli si fece incontro per spiegare l’accaduto.

«Maresciallo! Il bambinello!» esclamò il prete.

D’Alessandro viso in alto a sfidare il mondo, alzò la mano bloccando le lamentele del prete.

«Qui le domande le faccio io!» precisò. Don Santino tacque togliendosi il cappello che maneggiava tremante.

A vederlo in quel modo, al brigadiere venne un groppo in gola. Il maresciallo fece un lungo respiro.

«Monsignore» disse con calma «che succede?».

«Maresciallo! Il bambinello!» disse don Santino guardando il suo cappello tra le mani.

«E questo mi pare che l’abbia già detto prima».

«È sparito!» aggiunse il prete finalmente guardando negli occhi il carabiniere.

«Rubato o un miracolo?» ribatté il maresciallo con l’ansia di un beagle nella caccia alla volpe.

«Macché miracolo, vi pare che un bambinello di terracotta se ne vada in giro con le sue gambe? Rubato, maresciallo, rubato! E so anche chi è stato!» disse il sacerdote ritrovando tutto il coraggio perduto.

«E chi?» chiese il maresciallo con l’acquolina in bocca.

«Quel miscredente» affermò il prete indicando con l’indice teso il sindaco che a quell’uscita aveva fatto un passo indietro ed era diventato più bianco d’un cadavere, tanto che il brigadiere dovette sorreggerlo.

«Bene brigadiere, porti qua il signor sindaco» il maresciallo D’Alessandro aveva frainteso il gesto del brigadiere intento a sostenere il sindaco, credendo cadesse in mezzo alla piazza come una pera cotta, vista la faccia spaventata che aveva assunto dopo le accuse di don Santino.

Un mezzo sorriso si stampò sul volto del prete.

Il sindaco avanzò sorretto dal brigadiere fino al centro della piazza.

«Signor sindaco» cominciò il maresciallo guardandolo dai piedi alla testa e facendo pesare i molti centimetri di statura che li separavano «le accuse del parroco sono gravissime, se confermate in un regolare verbale potrebbero costarle una denuncia per furto!».

Un rivolo di sudore colò sul volto del sindaco. I diciotto gradi di temperatura gli sembrarono trenta vista l’esplosione di rabbia che aveva addosso.

«Un ladro io? La proprietà è un furto! Il pretazzo non fa altro che campare alle spalle dei cittadini, ed io sarei il ladro? E cosa avrei rubato? Un bambinello! Figuriamoci! Un bambinello? Ma ci pensate? E che me ne faccio di un bambinello io? Io che non sono credente? Me lo spiegate?».

Il ragionamento del sindaco pur nella confusione dell’esposizione non faceva una grinza, pensò il maresciallo che quindi rivolse lo sguardo al prete per cercare le conferme di cui aveva bisogno. Incastrare quel comunista era da tempo il suo obiettivo, per via di una vecchia storia di qualche anno prima che s’era legata al dito. Però neanche il prete gli stava molto simpatico, comunque averlo come alleato, temporaneo s’intende, non gli dispiaceva se questo significava dare una lezione a quel politico dei suoi stivali.

«Quel sindaco da strapazzo» spiegò don Santino «si oppone immotivatamente all’allestimento del presepe, come potranno confermarle i suoi uomini, avrà pensato di rubare la statua di nostro signore per impedirmi di andare avanti con la rappresentazione della santa natività».

«Piano con le offese, signor curato di campagna!» intervenne il sindaco gonfiando il petto per sembrare più alto «Maresciallo, proprio i suoi uomini potranno confermarle di avermi avuto sempre davanti agli occhi, come avrei potuto rubare una statuetta così voluminosa?».

«Come fa a sapere che è voluminosa?» chiese sospettoso il maresciallo.

«Ma se è la stessa da trent’anni? Ce l’abbiamo davanti al muso ogni Natale!» precisò il sindaco.

«Brigadiere, a rapporto» disse con tono deciso e perentorio il maresciallo «lei era presente. Mi dica come sono andate le cose».

Il brigadiere Ferro deglutì. Toccava a lui. Doveva dar fondo a tutta la sua faccia tosta per non sbruffare in faccia al maresciallo e scoppiare a ridere.

«Signor maresciallo» si mise sull’attenti «io e l’appuntato Benfatti siamo intervenuti per sedare una lite tra il signor sindaco e il signor parroco».

«Che tipo di lite? Armata?» chiese serio il maresciallo.

«Signor no! Una lite disarmata dovuta alla mancata autorizzazione comunale per l’allestimento del presepio, il sindaco accusava il parroco di non rispettare la legge, il parroco accusava il sindaco di essere miscredente».

«E avete tenuto d’occhio entrambi?».

«Signor sì! Entrambi sono sempre stati qui davanti e sia io che l’appuntato non li abbiamo mai persi di vista per timore di conseguenze» disse il brigadiere soppesando bene le parole.

«E c’era qualcun altro vicino al presepe che avrebbe potuto sottrarre la statua?».

«Veramente…».

Veramente vicino al presepe c’erano due operai che all’arrivo dei carabinieri si erano dileguati per le vie del paese.

Quando il brigadiere lo rivelò al maresciallo pensò di non poter fare altrimenti perché comunque lo avrebbe fatto il sindaco per discolparsi, però si morse la lingua. Sapeva che quello che tale rivelazione avrebbe prodotto.

Il maresciallo, infatti, accantonata per un attimo la sua ansia di rivalsa nei confronti del sindaco Manzella, aveva pensato che fosse suo preciso dovere assicurare alla giustizia i criminali che si erano macchiati di un tale, esecrabile e blasfemo, delitto. L’ordine era stato dunque quello di rintracciare e condurre in caserma i due operai, con le buone o con le cattive, aveva precisato al brigadiere e all’appuntato.

Benfatti aveva lanciato un’occhiataccia a Ferro che gli aveva fatto cenno di andare ed eseguire l’ordine.

Sapevano benissimo dove trovare entrambi gli accusati. I due, infatti, conosciuti in paese come Franco il filetto e Pinuccio il tiktok, erano noti bevitori, assidui frequentatori di qualsiasi bar fosse a loro tiro. Bastava dunque perlustrare i pochi locali del paese per rintracciarli. Così al secondo tentativo, il brigadiere e l’appuntato trovarono Franco e Pinuccio al bar di Sant’Antonio, appoggiati al bancone, intenti a dilapidare i pochi spiccioli che don Santino aveva dato loro in bicchierini di Vecchia Romagna.

Quando i carabinieri li riconobbero e si avvicinarono alle loro spalle si diedero un’occhiata di intesa e bussarono alle loro scapole. I due scacciarono i tocchi dei carabinieri come fossero mosche che gli ronzavano intorno, tanto la loro percezione del reale era compromessa. Così appuntato e brigadiere dovettero passare alle maniere forti e prendere di peso i due che appena si avvidero di essere prelevati dai carabinieri cominciarono a protestare perché i bicchierini di Vecchia Romagna lasciati sul bancone erano rimasti mezzi pieni.

Non fu facile fargli attraversare mezzo paese in quelle condizioni. Il rettilineo di via Roma fu affrontato dalla bizzarra comitiva con un continuo zig zag che i carabinieri erano costretti a correggere di continuo per far avanzare i due operai. Così un tratto di strada che potenzialmente poteva essere coperto in cinque minuti scarsi, fu attraversato dai quattro in almeno mezz’ora, tanto che il maresciallo, impaziente all’ingresso della caserma, aveva perso le speranze di vedere arrivare i suoi sottoposti con la pesca grossa.

Per questo quando vide arrivare il gruppetto formato dai due carabinieri e dai due ubriachi, si rinvigorì nella sua postura e assunse l’espressione severa dell’integerrimo uomo di legge. Quei due meritavano, evidentemente, una punizione esemplare e per loro sfortuna avevano trovato l’uomo giusto sul loro nefando cammino.

Franco Pirroni era detto “il filetto” per via della sua passione per i tagli pregiati di carne. Il soprannome era nato perché la madre di Franco, la signora Filomena andava ogni giorno in macelleria a comprare il filetto di vitello spiegando, chiacchierona com’era, che il figlio pretendeva quel preciso taglio e non mangiava nessun’altra parte del vitello.

Quella stessa sera la signora Filomena gli avrebbe sicuramente preparato un ottimo brasato. Era la vigilia di Natale e il cenone era sacro.

Anche per questo quando si riprese dai fumi dell’alcool e si ritrovò nella stanza del maresciallo, con D’Alessandro impaziente di poterlo interrogare, trasalì. Non capiva dove fosse, come fosse arrivato lì e soprattutto perché. Al suo fianco in uno stato vicino al coma il suo compagno di sempre, Pinuccio il Tiktok.

«Pirroni Francesco, fu Biase e di Ciottoli Filomena» lo svegliò dal torpore l’attacco di anagrafismo del maresciallo.

Franco “il filetto” annuì senza troppa convinzione.

«Bene, cos’hai da dire in tua discolpa?» quando D’Alessandro dava del tu a qualcuno, lo faceva perché si era ormai convinto, oltre ogni ragionevole dubbio, della sua colpevolezza.

La domanda del maresciallo, però, ottenne come risposta solo uno sguardo inebetito.

“Il reo è reticente, non collaborerà, ma non sa con chi ha a che fare” pensò tra sé D’Alessandro. Decise, dunque, di passare alle maniere forti.

Si alzò dalla scrivania.

Franco lo seguì con lo sguardo, gli tremavano le mani e sentì di affondare sulla sedia mentre il maresciallo gli girava intorno scrutandolo con occhi gelidi.

«Allora Pirroni» riprese D’Alessandro parlando alle spalle dello sventurato «stamattina tu eri in piazza Piana ad allestire un presepio, confermi?».

Franco annuì.

Il maresciallo fece un passo verso di lui calcando con il tacco della scarpa sinistra sul pavimento in modo da fare più rumore possibile.

Franco deglutì.

«All’arrivo del brigadiere e dell’appuntato ti sei allontanato di corsa, confermi?».

Franco annuì di nuovo. Sentì il fiato del maresciallo sul collo, in tutti i sensi.

Poi l’attenzione del maresciallo si spostò verso Pinuccio il Tiktok, così soprannominato perché portava sempre con sé una vecchia penna a scatto che azionava ripetutamente quando era nervoso.

«Giuseppe Alterio, di Luigi e Frangipane Lorenzina» gli gridò in faccia D’Alessandro nel tentativo di svegliarlo dalla paresi da cui sembrava colpito. Ma Pinuccio il Tiktok non fece una piega. Probabilmente non ricordava nemmeno il suo vero nome. Rispose con il sorriso di chi non ha capito nulla. Quasi come fosse sordo e non volesse darlo a vedere.

Un po’ deluso dal mancato scuotimento dell’accusato, il maresciallo cominciò a camminare su e giù per la stanza. Avrebbe voluto accendersi la pipa, ma non permetteva a nessuno di fumare in caserma e per dare il buon esempio aveva smesso anche lui. Lasciò perdere Pinuccio e continuò su Franco.

«Prima di darti alla fuga, hai sottratto il bambinello per poterlo rivendere a un collezionista d’arte» sentenziò il maresciallo.

A quell’uscita il brigadiere mascherò con un colpo di tosse la risata fragorosa che gli stava scoppiando nel petto. Collezionista d’arte? Il bambinello di gesso di don Santino era un pezzo di nessun valore, comprato per quattro soldi in chissà quale negozio, e anche di pessima fattura. Il prete, attaccato ai soldi com’era, non aveva certo comprato un pezzo unico.

La tosse del brigadiere Ferro infuse coraggio e lucidità nell’animo di Franco.

«No, maresciallo. Io e Pinuccio siamo scappati, è vero, ma perché le cose stavano mettendosi male e quei due sarebbero venuti alle mani. Ma mai e poi mai avremmo potuto rubare il bambinello perché le casse con i pastori erano dall’altro lato rispetto a quello verso cui siamo scappati e per prenderne uno avremmo dovuto passare proprio davanti al brigadiere e all’appuntato».

Che due dei suoi uomini se la fossero fatta fare proprio sotto il naso? Il dubbio arrivò come un pugno in faccia al maresciallo D’Alessandro.

«In effetti, maresciallo» confermò il brigadiere Ferro «la posizione dei due operai al momento del nostro arrivo non è compatibile con un furto».

Il maresciallo guardò il sottoposto dritto negli occhi. E quindi? Il bambinello s’era messo a camminare? Qualcuno lo ha dovuto pur rubare se non si trovava.

«Ora che ci penso» continuò Ferro «c’era un’altra persona proprio dietro le mie spalle quando io e Benfatti eravamo impegnato a sedare la rissa tra il sindaco e il prete».

«Di chi si tratta?» chiese eccitato il maresciallo.

«Domenico Caproni inteso Mimmuccio il “vacante”, nullafacente e pregiudicato» disse con tranquillità il brigadiere.

Gli occhi di D’Alessandro si illuminarono come un albero di Natale.

«Brigadiere, cosa aspetta? Vada a prenderlo e lo porti qui» ordinò il maresciallo.

«Comandi maresciallo, ma mi sono permesso di mandare Benfatti a perquisire casa del “vacante” alla ricerca della refurtiva. L’appuntato dovrebbe essere qui a momenti».

Il brigadiere non sbagliava. Infatti non ebbe nemmeno finito di pronunciare quella frase che dalla porta entrò l’appuntato Benfatti tenendo con un braccio Mimmuccio il vacante e con l’altro il bambinello di gesso.

«Ecco, caso risolto. I miei complimenti maresciallo» commentò il brigadiere.

D’Alessandro rimase interdetto. Per una volta non sapeva che fare. Così Ferro gli si avvicinò sussurrando: «a questo punto direi di rilasciare il Pirroni e l’Alterio e di arrestare il Caproni, che ne dice?».

Il maresciallo, riprendendo il suo aristocratico distacco, sentenziò: «e sia! Si rilascino il Pirroni e quest’altro e si metta in stato di fermo il Caproni».

Il brigadiere fece cenno a Franco il filetto di sparire. Quello non se lo fece dire due volte e si dileguò senza salutare trascinando a peso morto Pinuccio il Tiktok.

Sulla sedia lasciata libera dal filetto l’appuntato Benfatti sistemò Mimmuccio il vacante.

«Maresciallo, vi prego. Non so come sia finito quel Gesù bambino a casa mia» spiegò Mimmuccio.

«Sì, come no» protestò il maresciallo «ti è venuto a trovare di sua spontanea volontà».

Intanto l’orologio della caserma suonò le tre.

«Maresciallo, se permette, visto che il suo turno è finito e a casa l’aspettano, penserei io al verbale e alle formalità di rito, tanto mi pare che la situazione sia chiara» disse offrendosi di fare gli straordinari il brigadiere.

D’Alessandro annuì soddisfatto, prese la sua giacca e volò via verso il succulento pranzo che sicuramente la moglie gli aveva tenuto in caldo. Del resto se l’era meritato con quel gran bel lavoro.

Appena il maresciallo lasciò la caserma, il brigadiere si allentò la cravatta.

«Brigadie’, voi lo sapete. Io sono onesto. Non c’entro niente. Non so come c’è arrivato a casa mia!» continuava a difendersi Mimmuccio.

«Vabbè» sospirò il brigadiere, poi, rivolgendosi all’appuntato Misfatti «portalo in camera di sicurezza e assicurati che stia bene».

L’appuntato obbedì tra le proteste di Mimmuccio il vacante.

Una volta rimasto solo, il brigadiere si accese una sigaretta. Il tempo di due tiri, di osservare il fumo volteggiare nella stanza e di fantasticare sull’eventuale reazione del maresciallo qualora lo avesse visto fumare sulla sua scrivania e l’appuntato era ritornato.

«Appuntato, però ora mi dovete spiegare tutta questa storia. Io ho obbedito agli ordini ma non c’ho capito niente. Perché prima mi avete fatto nascondere il bambinello a casa di quel povero cristo e poi me lo avete fatto arrestare?» chiese l’appuntato.

«Lo sai perché lo chiamano “il vacante”?»

Benfatti non rispose. Non lo sapeva, ma nemmeno riusciva a capire dove andasse a parare il ragionamento di Ferro.

«E te lo dico io. Lo chiamano “il vacante” perché non mangia. Ha sempre lo stomaco vuoto. Così ogni vigilia di Natale lo arresto con una scusa e l’indomani lo rilascio. Almeno qui in caserma può avere un pasto caldo».

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