Nata sbagliata. Storia di un disagio
Racconto di Antonella Perrotta
Le lenzuola sanno di bucato appena fatto. Stese linde sul letto con ancora i segni della stiratura. Lui vi sta sopra, nudo, e sorride dolcemente e pronuncia parole gentili a voler addolcire il momento e attribuire un sentimento a un atto che sentimento non ha.
“Ipocrita di merda”, penso. “Vuoi scopare, scopa” e mi allargo su di lui, con un senso di potere. Il suo cuore batte. Il mio, no. Lui ansima. Io, no. Lo vedo godere mentre sperimento la medesima sensazione di potere. È l’unica che ricevo da questo rapporto ipocrita che si somma all’ipocrisia che mi circonda, cui non riesco a fare l’abitudine. Vuole baciarmi e accarezzarmi. Ma io mi scanso. Non voglio dolcezza, non voglio che questo rapporto intimo sappia d’intimità. Vorrebbe accarezzarmi anche dopo, ma lascio il letto, mi vesto, gli sorrido e me ne vado e dovrebbe ringraziarmi anche soltanto per avergli sorriso. Invece, resta allibito. Cosa si aspettava?
Guardo l’orologio mentre entro in macchina. Sono le circa le venti e tira vento. Allaccio la cintura e cambio destinazione, avvertendo con un whatsapp. “Sto arrivando.” La strada è deserta e anche buia. Non vedo bene. Dovrei rallentare e, invece, spingo il piede sul pedale dell’acceleratore. La velocità dell’auto sull’asfalto mi dà un brivido di eccitazione e compensa l’apatia delle emozioni.
Mi rifugio in un luogo conosciuto, questa volta. Non ci sono lenzuola pulite ad attendermi, un divano soltanto, un televisore acceso, un panino smangiucchiato sul tavolo e, a fianco, un bicchiere mezzo pieno di un liquido scuro, coca-cola forse. Mi accuccio sul divano di fianco a lui che mi fa spazio. Sono braccia accoglienti, le sue, ma non è ciò che cerco. Il mio cuore inizia a battere, ma alieno la mente, riesco a fermarlo. Non voglio purificarmi, non voglio elevarmi, non voglio amare ed essere amata, voglio soltanto ferirmi l’anima. Ecco, la mia carne è penetrata, mentre invoco il silenzio e lascio che la luce rimanga accesa ché ogni cosa deva essere chiara e nessuno sconto mi spetta.
Tutto è finito. Minuti, certamente, quanti non so. Dieci, quindici, venti? So soltanto che voglio soltanto rivestirmi, ora, e andare a casa a piangere su questo mio corpo che porta addosso i segni di più uomini consumati in poche ore. Voglio piangere su me stessa, di me stessa, voglio farmi schifo, toccare un fondo dal quale non voglio risalire. Ci si suicida in tanti modi, non soltanto gettandosi da un tetto o infilandosi una corda al collo. Si sopprime il corpo, ma è l’anima che io voglio annientare e perdere. “Si è fatto tardi, vado”, dico e sorrido, ma stavolta aggiungo d’istinto una carezza.
Rientro in macchina. Sento il cellulare vibrare. Arrivano messaggi da colui che ho lasciato su un letto sfatto che porta ancora la mia impronta. Blocco il contatto. Guido fino a casa. Con prudenza, stavolta, e chissà da dove viene fuori ‘sta prudenza. M’infilo sotto la doccia, provo a lavare via l’odore e il seme altrui. Non sono più io, sono un corpo prestato che non mi appartiene, un cuore che non batte più, un’anima che si appresta a volare lontano e non ho intenzione di riacciuffare. Mi corico, poi mi rialzo e accendo una sigaretta e la notte è giorno, ma il giorno arriva tardi. L’odore del fumo non smorza quello del bagnoschiuma ai fiori di loto, i fiori della dimenticanza.
Io non voglio dimenticare, però. Voglio restare ferita, più ferita che mai ed è questa la mia punizione ed è questo il mio godimento. Voglio lasciarvi tutti su questa terra bastarda, chini sulle vostre scrivanie di fronte ai vostri PC, mentre pensate al lavoro, al successo, ai soldi, alle ambizioni coltivate con cura maniacale, mentre correte su un tapis roulant per sfogare le vostre frustrazioni e farvi il fisico giusto che piace al consesso civile, mentre portate i fiori a una fidanzata per bene con la lingua di zucchero tra le cui braccia vi rannicchiate come su un divano di finta pelle, ché acquattati in due si sta più caldi e dove non arriva l’uno arriva l’altro e viceversa, e quanto è comodo l’amore quando si pensa soltanto al proprio bene senza avere il coraggio di ammetterlo.
Voglio lasciarvi alle vostre invidie e alle vostre gelosie, ai vostri finti complimenti reciproci e al vostro finto voler bene, ai girasoli di plastica sui tavoli delle vostre cucine, ai cassetti con i calzini che la vostra donna, precisa come devono essere le proprie donne, ha sistemato per colore così è più facile trovarli, ai vostri figli illegittimi taciuti alle famiglie legittime ché di crimine e liceità è fatta la morale, alle mansioni delle otto, a quelle delle tredici, a quelle delle quindici, delle diciotto e delle venti, messe insieme in quello che chiamate caos delle vostre vite, ma che caos non è, ché tutto ha trovato un ordine in voi e anche il disordine è ordinato, pure se non ve ne rendete conto.
Voglio lasciarvi.
Io sono nata con tre giri di cordone ombelicale intorno al collo di cui porto i segni. Li tocco, a volte, per ricordarmi di essere nata a forza, frutto di una volontà altrui che va dal concepimento al parto, grazie a un seme che si è fatto strada e a mani che mi hanno strappato da un ventre ormai asciutto nel quale volevo restare, soffocata dal quel cordone, fino a che non avrei avuto più ossigeno né acqua su cui galleggiare.
Voglio lasciarvi, mentre affogo nel mio silenzio sbagliato, nella mia vita sbagliata, ché io sono nata sbagliata anche se nessuno se n’è accorto. Sono stata brava a nascondere lo sbaglio dietro a un sorriso e una veste garbata e un titolo sul curriculum, ma forestiera del mondo sono sempre rimasta.
Voglio lasciarvi, ché non ho il coraggio per vivere e neanche per morire, come non lo ho avuto per nascere. Voglio lasciarvi e lasciare andare la mia anima. Ventuno grammi soltanto di puro dolore.