Marguerite è stata qui. Yourcenar secondo Eugenio Murrali
Recensione di Antonio Maria Porretti. In copertina: “Marguerite è stata qui” di Eugenio Murrali, Neri Pozza, 2023
Attraverso un itinerario che ne ripercorre le traiettorie di vita, filmandola nelle parole e con lo sguardo di coloro che entrarono a far parte della sua orbita in fasi e epoche differenti, con “Marguerite è stata qui”, Eugenio Murrali ci racconta uno dei maggiori pilastri della letteratura del Novecento: Marguerite Yourcenar.
Nata a Bruxelles il 3 febbraio del 1903, Marguerite Antoinette Jeanne Marie Ghislaine baronessa di Crayencour – l’anagramma del cognome de plume le venne suggerito dal padre – si sarebbe consacrata già in età molto precoce alla scrittura, facendone pulsazione eletta del suo animo, plasma per il suo sangue, origine di una maternità che avrebbe provato solo annotando e redigendo le sue opere. Forse, arrivando persino a identificarla e associarla a quella madre che non avrebbe mai conosciuto; Fernande – Ferdinande de Cartier de Marchienne – morta nel darla alla luce, e che avrebbe cercato di far rivivere sulla pagina, dedicando a lei e a tutto il suo ramo familiare materno “Care Memorie”.
Apolide per scelta, poliglotta per formazione, Marguerite si mosse attraverso il mondo come una sorta di Minotauro in balia del suo insaziabile di ricerca. Le voci narranti che Murrali dispone nelle coordinate geografiche e affettive di Yourcenar, concorrono a saldarne la tenacia con cui essa si condusse ovunque, per tutto il tempo a lei concesso. Sempre nell’alone di una luminosità distanziante, ma altrettanto pervasa di umanità, di compassione nel senso di comprensione, e dunque di accettazione, d’accoglienza senza riserve. Mai stanco di individuare nuove e altre prospettive. Mai refrattario nel riconoscere e ammettere le proprie ambivalenze e contraddizioni. Mai pago di sottoporsi a ripensamenti. Un esercizio che applicò tanto alla sua vita quanto alla sua scrittura, nella mutevolezza continua di anni ora più limpidi, ora più bui.
Il suo riserbo non nascondeva superbia, soltanto uno stile tramite il quale immergersi in quell’amore da lei stessa designato come sua tomba, stringendo un suo patto di complicità con la morte, che le avrebbe sottratto uno dopo l’altro i suoi affetti più cari. Il padre Michel René all’epoca dei suoi tredici anni; e poi Grace Frick, la donna incontrata a Parigi nel febbraio del 1937, con cui instaurò un sodalizio di arte e vita protrattosi per quarant’anni, nel vento di un legame che soltanto uno di forza maggiore avrebbe potuto spezzare: quel cancro che le portò via Grace nel 1973; e poi ancora Jerry Wilson, il bellissimo ragazzo dell’ Arkansas che amava tanto falciare il prato di Petite Plaisance ( Gioia Leggera, la proprietà nel Maine acquistata da Marguerite e Grace nel 1950), l’ ultima e sua grande passione, in cui era la vita a riprodurre ciò che lei aveva già vaticinato nella sua opera più celebre, “Memorie di Adriano”. Jerry rappresentava il suo Antinoo nell’ unione delle loro anime, anche questa disciolta a causa di una malattia.
Jerry sarebbe infatti morto a Parigi per aver contattato il virus dell’Aids, mentre Marguerite si trovava ricoverata in una clinica di Boston per sottoporsi a un intervento a cuore aperto. Due storie, due legami in cui Yourcenar visse il proprio stesso teorema d’amore espresso in una pagina di “Fuochi”: “Non esiste un amore infelice: non si possiede se non ciò che si possiede. Non esiste un amore felice: ciò che si possiede non lo si possiede più.”
Gran merito va riconosciuto a Murrali per aver saputo sbalzare in meno di 200 pagine la figura della “Immortale” Marguerite, organizzando una polifonia di voci soliste che ce la restituiscono in tutta la sua inesauribile e mai scalfita fragranza, alternandole alla propria, nella cronaca del suo personale viaggio alla ricerca della donna e letterata, che per prima poté sedere fra i più grandi Accademici di Francia.
Un testo che potrebbe rappresentare un ottimo approccio a Yourcenar e alla sua intera opera. Vi è solo un appunto che mi permetto e sento di fare, che per quanto possa apparire paradossale, riguarda proprio la lingua. Per carità, non mi si fraintenda, cesellata in ogni frase, con accuratezza tale da far pensare allo stesso lavoro di spasmodica revisione che Yourcenar riservava ai propri scritti, quasi per un desiderio di fusione e simbiosi con la sua protagonista eletta.
Tuttavia – ed è questo il punto – in una successione di capitoli strutturati e proposti come soliloqui o monologhi interiori, dove a parlare sono testimoni quanto mai vari per indole, estrazione e cultura, risulta poco organico l’utilizzo di un solo e medesimo registro linguistico. Può darsi che sia la mia formazione e esperienza teatrale a spingermi verso questa affermazione, ma un personaggio – che viva sulla carta o sulla scena non fa differenza – lo si caratterizza non solo per la sua fisicità, per i comportamenti che assume e con cui reagisce agli eventi che gli capitano, ma anche tramite la lingua che parla.
Detto questo, vorrei concludere menzionando un altro aspetto positivo di questo libro: il desiderio di andarsi a rileggere qualcosa di Yourcenar. A me è capitato con quel “Fuochi” citato prima. Spero che capiti la stessa cosa anche ad altri eventuali lettori.