Addio al mare dell’esilio. Lucia Donadio e la “necessità delle radici”
Recensione di Martino Ciano. In copertina: “Addio al mare dell’esilio” di Lucia Donadio, Rubbettino, 2023
“A fare l’America” ci hanno provato in tanti, ma non è sempre andata bene, anzi forse è sempre stata una tragedia quella partenza che sapeva di fuga, dietro cui si celava la necessità di trovare condizioni migliori di vita. D’altronde anche oggi è così. Tutto cambia agli occhi di colui che “va via” dalla propria patria, sia essa grande come un orto o come un impero. Lo sanno bene i calabresi che hanno preso il mare per andare nel Nuovo Continente. Qualcuno si è realizzato, qualcun altro si è lasciato ingannare dalle opportunità, per tutti la sensazione è sempre stata una, ossia “sentirsi esiliati”.
Lucia Donadio dà vita a un libro intenso, forte di quella esperienza che, se anche non diretta, si impregna nel Dna. Anche lei, di origini calabresi, ma oggi cittadina della Colombia, sa cosa vuol dire guardare casa propria stando dall’altra parte del mare. Lei anche conosce l’esilio e quella sensazione di non essere né dell’una né dell’altra riva dell’oceano. È vero, dobbiamo avere uno spirito cosmopolita, ma dev’essere una scelta e non una costrizione, deve sbocciare in noi come una rosa profumata e non per necessità.
Questa però non è la sua esperienza, non è un’autobiografia pura, ma un romanzo che inizia dalla Calabria, da Morano Calabro, piccolo comune del cosentino. La storia comincia nella prima metà del Novecento e si compie negli intrecci familiari che il tempo spezza e riannoda. Nel tempo si danza, si inventano coreografie di ogni genere, c’è il racconto di chi da povero e spaesato diventa ricco, ma nessuno si integra alla perfezione. Non c’è il lieto fine, lieto è solo il delicato linguaggio di questo romanzo che arriva al cuore di un problema fondamentale: le radici nessuno può reciderle, il nostro luogo di nascita ci forma, il resto è solo una accettazione.
Il mare è un ostacolo; l’oceano è vigile custode della scelta compiuta. Salpare per rifarsi una vita, tornare per un attimo per sentirsi senza casa, anche se ormai sono diventate due. Nulla di pessimistico, ma solo una lettura schietta di un fenomeno che ormai è solo statistica. Sono solide le citazioni che Donadio mette tra le pagine, ossia Márquez, Borges, Perec, tutti autori che ispirano la sua scrittura e il modo in cui modella le emozioni. Siamo di fronte a una “saga familiare” che in maniera labirintica, come piaceva a Borges, mette in mostra un conflitto insanabile, quello della ricerca di sé stessi tra eventi scaccianti.
Nessuna emozione trova sbocco in una via d’uscita. È inspiegabile l’angoscia che guida questi personaggi, è rapace la voglia di tornare all’origine. Ma il problema è questo: dov’è l’origine? Se si tornasse a casa il risentimento rimosso, che ha spinto a partire, tornerebbe a galla; se non si tornasse, almeno per una volta, ci si abituerebbe a dimenticare quell’Io che da lì proviene.
È qui tutto il mistero e tra le sue trame Donadio racconta anche la sua esperienza. Lo fa involontariamente, senza risolvere il conflitto alcuno, ma solo ammirando il mare e quell’esilio che sa ispirare anche una timida riconciliazione con gli addii sussurrati.