Marco Quarin. Il bosco di Marx. Prospero editore
Recensione di Martino Ciano. Buona lettura.
Uno degli argomenti che mi ha sempre affascinato degli studi antropologici è sicuramente quello sui riti di passaggio, in quanto momenti gioiosi e traumatici. L’uomo non sa governare il caos, ma anche quando tutto appare lineare, l’umanità deve immortalare con un rito un evento lieto o drammatico, affinché ogni tappa sembri un punto e a capo.
La caduta del Muro di Berlino è stata la fine di un’epoca. Attraverso quel rito rovinoso sono state spazzate via molte certezze. La certezza è un’illusione che non deve mai mutare, una colonna dello spirito che nel momento in cui cede fa sprofondare nel vuoto la coscienza collettiva.
Vittorio Marchi, classe 1915, è stato un comunista, un mangiapreti, ma essere nato e aver vissuto in Friuli ha nascosto ai suoi occhi le tragedie del socialismo reale. Quando la Cortina di Ferro viene abbattuta a picconate, il trauma provocato da quel rito lo ucciderà lentamente. Ma questa è solo una parte della storia, il vero protagonista del romanzo è il giovane giudice antimafia, Federico Cassan, che vive gli anni del passaggio in una Procura della Repubblica siciliana. Lui vede con i suoi occhi cosa provocherà la caduta e ha subito il sentore che molti atavici equilibri siano venuti meno e che solo attraverso altri riti si potrà ritornare alla pace.
Che siano state le bombe dello stato-mafioso vivide testimonianze del momento di passaggio?
Marchi e Cassan, zio e nipote, persone che partecipano a un rito più grande di loro dal quale ognuno ne uscirà sconfitto; Vittorio, addirittura, muore per strada come un barbone. E il giovane giudice inizia a indagare, vuole capire perché suo zio ha preso una decisione così radicale. Forse, la vita di un uomo termina nel momento in cui muore il proprio ideale?
Il bosco di Marx di Marco Quarin si interroga proprio su questo e man mano che l’indagine di Cassan andrà avanti, a questa domanda si aggiungeranno altri punti interrogativi. Il romanzo dell’autore friulano è una disamina sulla caduta delle idee e sulla dicotomia coerenza-ottusità. Entrambi i protagonisti di questa vicenda vivono sul confine di un’epoca, che per quanto ricca di ideali, ha generato mostri e figli di un pensiero machiavellico in cui a spiccare è stata solo l’ipocrisia della Ragion di Stato.
Sullo sfondo, il bosco di Marx, questo luogo in cui Vittorio Marchi ha seppellito il suo fedele cane e tanti altri segreti. Ma come ogni bosco, esso è un luogo in cui si cerca riparo dalla quotidianità.
In questo romanzo in cui storia e vita si intrecciano, troviamo una profonda lezione sulla contemporaneità. Già nel suo precedente romanzo, Sopra non appare nessun cielo, Quarin aveva indagato sulle contraddizioni della storia e, anche questa volta, con estrema linearità, ci ha raccontato di anni oscuri di cui si parla a vanvera e di cui si omettono verità scomode.