Marchiato
Racconto e foto di Daniela Grandinetti
Mi ronza in testa una vecchia canzone di Sergio Endrigo “c’era una casa tanto carina, in via dei matti numero zero”. Non sto andando in una casa molto carina senza soffitto e senza cucina. Sto andando in via Benedetto Croce al numero 240, dove non sono mai stato. Stamattina ho accompagnato Luca all’asilo, a lui è sembrato strano, io sono il primo a uscire e l’ultimo a tornare. «Oggi non vai al lavoro, papà?» Ho guardato la strada, c’era un anziano che stava per attraversare. Mi sono fermato e ho aspettato, un lento passo dopo l’altro, poi sono ripartito.
Le macchine in fila dietro mi hanno rifilato i loro clacson di insulti, al mattino hanno tutti fretta. Avevo bisogno di tempo per rispondere a mio figlio, il cervello mi si era impantanato. «Certo che vado. Ma più tardi.» «Sono contento che a scuola mi porti tu.» Mi ha risposto Luca. Ho guardato nello specchietto retrovisore, Luca è nel seggiolino e vorrei chiedergli di non crescere, di restare così per sempre, con l’espressione soddisfatta che ha in questo momento.
Lascio mio figlio davanti all’asilo, gli consegno lo zaino e poi lo guardo mentre corre via. Per andare in Via Benedetto Croce conviene prendere l’autobus, lascio la macchina vicino alla piazza in un parcheggio a pagamento. Ritiro il biglietto, la sbarra si alza. Penso che tutto sta per cambiare. La differenza è che la sbarra per me si è richiusa. Parcheggio la macchina e mi dirigo alla fermata. Non sono abituato agli autobus, li prendo di rado e soltanto se sono costretto. Mentre aspetto il 32 ho la sensazione che tutti mi guardino. Non indosso giacca e cravatta, ma una camicia celeste e un maglioncino blu. Jeans di marca. Non mi è mai dispiaciuto vestire decentemente. Da Piazza Mazzini a Via Benedetto Croce ci sono otto fermate, l’autobus dovrebbe impiegare circa venti minuti. Ho studiato il percorso nei minimi particolari non perché sia preciso, ma perché spinto dal timore di sbagliare. E non ho davvero voglia di sbagliare. Non oggi. Non ce la farei a rimediare.
In effetti, trascorsi venti minuti l’ottava fermata è la mia. Tutto come previsto. Sono stato appeso alla maniglia tra persone che spingevano, mi urtavano fastidiosamente. Nessuno che chiedesse scusa. Un ragazzo mi è persino montato su un piede nella foga di accaparrarsi il posto a sedere. Non è un bel mondo. Su un autobus ci si può rendere conto dell’umanità meglio che altrove. Scendo e ho ancora il biglietto in mano. Guardo intorno per cercare un cestino dove buttarlo, ma non c’è, così lo infilo in tasca. Io non sono uno che butta la roba per terra. Non devo fare molta strada, l’ufficio è a due passi dalla fermata. Peccato, perché avrei camminato volentieri, giusto il tempo di liberarmi il naso da tutti quegli odori di ascelle poco lavate o spruzzate con deodoranti invadenti. Ho ancora la sensazione di essere osservato, eppure questo è un quartiere che conosco appena, abito dall’altra parte della città. Dovrò abituarmi a questa condizione. Agli sguardi puntati addosso. A questo senso di umiliazione.
Di fronte alla vetrata del numero 240 ho un attimo di esitazione, un lieve capogiro, come se ad attendermi dietro quella porta ci fosse un girone dell’inferno, e io non voglio entrarci. Vorrei chiedere aiuto. Invece resto fermo, composto. Nella mia condizione, la rabbia sarebbe più forte della rassegnazione, ma la rassegnazione è l’unica carta che ti è concessa di giocare. Questo l’ho capito negli ultimi giorni. Mi decido a entrare, spingo la porta a vetri. Dentro c’è un insopportabile odore di umidità e detersivo scadente, di polvere accumulata negli angoli e sulle scartoffie accatastate. Mi dirigo al distributore automatico di numeri, premo un bottone nero e sfilo il mio. Ho il numero 18, non ho idea dei tempi di attesa. Vedo una sedia libera, mi siedo senza guardarmi intorno, non voglio vedere le facce di quelli come me.
È accaduto tutto troppo in fretta, inaspettatamente, non riesco ad accettarlo, ammesso che si possa accettare l’idea di restare senza lavoro alla mia età, con un figlio piccolo, un mutuo da pagare, una moglie sparita. Non è solamente una faccenda di soldi, anche se con quella devi fare comunque i conti. È che quando ti arriva quella lettera scritta in un burocratese freddo e impersonale, vorresti andare direttamente dal tuo capo e dirgli: con questa ti ci pulisci il culo! Dopo lo shock mi sono sentito inutile, e poi, in perfetta successione, perso. Be’ no, perso ero perso da un pezzo, da quando Liza se n’è andata, per l’esattezza. I suoi sogni erano rimasti dall’altra parte del mondo e lei se li è andati a riprendere.
Mentre aspetto mi accorgo che accanto a me c’è un ragazzo di colore, mi chiedo se è qui per lo stesso motivo. Forse per lui non è così tragico: è giovane, forte, magari scampato a chissà quale guerra, e un sussidio è sempre meglio di ciò che aveva nel suo paese. Ma che ne so io? Io appartengo alla schiera di quelli che sono sempre stati dall’altra parte, al sicuro, nella mia poltrona di fronte al monitor dell’ufficio al mattino e in quella davanti alla tv alla sera. Ed ora, invece, eccomi qui, sbattuto in mare da un’ondata, mi dimeno come un naufrago in balia delle correnti e tutto quello che ho fatto non serve più a niente. Alzo gli occhi verso il pannello elettronico, tra un po’ è il mio turno. Sto per diventare un numero, una pratica. Metteranno un timbro da qualche parte ed è fatta. Quale numero sarò nell’esercito di quelli come me? Voglio dire, quanti saremo? Migliaia credo. Migliaia di manichini senza un volto né un nome né una storia. Fogli, carte, pratiche da sbrigare. Le storie degli imprenditori finiscono sui giornali, perché quando un’azienda chiude fa rumore. Sono andati a intervistare il mio capo e lui ha recitato la sua parte di padre addolorato, ma a noi nessuno viene a fare domande. Noi non facciamo notizia. Magari accade se qualcuno si ammazza, come succede ogni tanto. Ecco che allora quel disperato finisce sui giornali, con nome e cognome. Ma sai che gloria! Dura il tempo in cui si brucia una notizia.
Finalmente è arrivato il mio turno, mi avvio. Mi siedo di fronte a un’impiegata e sono a disagio. Lei è di spalle, non è pagata per comprendermi, ha fretta. Mentre mi mette sotto gli occhi un modulo da riempire alzo lo sguardo. Non è possibile, vorrei alzarmi e scappare. Ines. È Ines.
Anche lei si blocca, mi guarda.
“Carlo… oh mio Dio, ma sei proprio tu?”
No, anche questo no. Quanti impiegati ci sono in questo ufficio? E a me doveva toccare proprio Ines? Quanto è tempo è passato, non lo so, dieci, quindici anni? In questo momento il tempo è contratto.
“Si… sono io.”
Ines, avevamo quanto? Poco più di venti anni. Quando l’ho lasciata per Liza ci ha messo un po’ prima di smettere di ossessionarmi l’esistenza. E ora eccola là, dietro la scrivania, a fare l’impiegata all’ufficio di collocamento. E io da quest’altro lato: disoccupato.
È imbarazzata, quanto e più di me, sento che non sa quale domanda scegliere per prima.
“Scusa, è che non so cosa dire, questo è l’ultimo posto nel quale avrei pensato di rivederti.”
Dietro gli occhiali, scorgo un’espressione che oscilla tra pena e curiosità. Ma credo sia pena. Lei invece non mi ha mai fatto pena, quando me la ritrovavo sotto casa a implorarmi di ripensarci l’ho detestata, volevo sparisse dalla mia vita. L’amore finisce e questo è quanto.
“Anch’io è l’ultimo posto dove avrei pensato di finire.”
“Cosa è successo?”
“Quello che succede a tanti che sono qui credo, l’azienda fallisce, ti ributtano nella mischia dopo anni.”
“Capisco… e come stai?”
No, non capisci, tu ne vedi decine al giorno come me e porca miseria proprio te dovevo trovare qui? Non era già abbastanza?
“Senti Ines, c’è una bella fila, tiriamoci fuori dall’imbarazzo e dimmi cosa devo fare.”
“Sei sposato?”
Ines, lasciamo stare.
“Lo ero, mia moglie è andata via. Ho un figlio di cinque anni, vivo con mia madre e come se non bastasse sono stato licenziato. Ti ho detto tutto.”
Mi sento sollevato e non ho alcuna curiosità di sapere come vivi tu.
“Suppongo non ti interessi cosa sia accaduto a me in questi anni e hai ragione, c’è gente che aspetta. Però se vuoi fare due chiacchiere vado in pausa tra un’ora, possiamo prenderci un caffè.”
Mi sorride. Non voglio fare due chiacchiere con te, Ines.
“Devi compilare questo intanto.”
Mi allunga un foglio: dati anagrafici, cosa chiedo, cosa dichiaro, stato di disoccupazione, mi impegno a… Non è così difficile. Sono dati, cifre, crocette nelle caselle. Pensavo peggio. Restituisco il modulo, leggo si chiama scheda anagrafica del lavoratore. Mentre lei mette un bollo e firma, mi dà istruzioni per il futuro. Il futuro. Mi viene da ridere. In caso di. Se ricevessi. Se accadesse. Annuisco senza parlare. A male pena capisco quello che dice. Ho solo voglia di andarmene Ines. Tu hai sempre delle belle labbra. Una volta mi piaceva morderle e credevo che lì finisse il mondo.
“Perdonami Ines, magari sarà per la prossima volta, ma ho un impegno.” Mento.
“Capisco, figurati.”
Si alza, mi guarda. Allunga la mano. La stringo, senza calore. Non sei un volto amico Ines. Sei una ex e io sono un ex lavoratore. La lascio lì che mi guarda, esco e non so dove andare. Non c’è un posto dove vorrei essere. Mi incammino senza meta, senza curiosità, scombussolato. Da oggi sono ufficialmente disoccupato, magari se non t’avessi lasciato saremmo insieme a pranzo, tu volevi fare l’avvocato e io il commercialista. Poi Liza è rimasta incinta. Chissà cosa è successo a te per finire là dentro.
Disoccupato. Devo abituarmi all’idea. A quarantadue anni devo fare amicizia con questo pensiero. Potrei fare qualche progetto. O magari studiare come si costruisce una bomba, perché tutto questo non accade per caso. Non è destino o sfortuna. Io so di chi è la colpa, anche perché ero io che tenevo i conti dell’azienda. So perfettamente com’è andata. Credo di avere diritto alla rabbia, Ines, che non è la stessa di quella che hai provato tu. Un amore finito, in fondo, è una bazzecola. Sembra la fine fino a un nuovo inizio.
Penso a quelli che parlano di me, di noi numeri, laureati alla Bocconi in tv. Io voglio avere un volto, un nome, una storia. Non voglio essere un numero nelle loro fottute statistiche. Credo tornerò a casa. Su internet ci sono siti che ti spiegano tutto per filo e per segno. Quindi troverò quello che insegna a costruire un ordigno. C’è una barca ormeggiata nel porto di Genova, appartiene al mio capo. Ho saldato io la fattura dell’architetto che ha realizzato gli interni. Tra qualche mese dovrebbe salpare per il Mediterraneo. Invece salterà in aria. Un meraviglioso spettacolo pirotecnico. A mio figlio spiegherò che dovrà considerarmi un eroe invece che un fallito. Rifaccio la strada fino alla fermata dell’autobus. Mi fermo. E se tornassi indietro a prendere un caffè con te, Ines? In fondo, a ben pensarci, questa coincidenza fa ridere: non era in via dei Matti numero zero?
A chi di lavoro si ammala, a chi di lavoro muore.