Malavuci. Antonella Perrotta e il vento della “zizzania”
Recensione di Martino Ciano già pubblicata per Gli amanti dei libri
La malavuci è una zizzania che come il vento non si sa da dove viene e dove andrà a finire. Lo sanno bene i protagonisti di questa storia. Loro vivono a San Zefiro, piccolo borgo calabrese immaginato e creato ad hoc dall’autrice. È il 1919 e dopo la guerra arriva la Spagnola che ammazza senza ritegno, che si manda via con gli scongiuri, che chissà quale magara ha invocato.
Ma nel borgo non c’è solo una strega da catturare, ma anche ‘na femminella altro di cui ridere e su cui riversare le proprie frustrazioni. D’altronde, il paesello è così: è abitato da tanti disgraziati con problemi risolvibili e irrisolvibili, quasi tutti sono poveri e analfabeti e al destino si sottomettono, del poco si accontentano, ma ognuno di loro deve trovare un passatempo per sentirsi vivo.
Antonella Perrotta scrive una storia in cui l’ironia apre le danze, ma a chiuderle è il dramma. Pregiudizio e ipocrisia agitano questa società contadina, ma a rendere immutabili le cose è quel senso di impotenza con cui ogni abitante deve fare i conti. C’è un muro contro cui si va a sbattere allegramente; non esiste rimedio, non c’è redenzione, così è e così rimarrà. Chi incappa nella malavuci può solo sperare che il tempo la zittisca o che un vento più forte porti via con sé le brezze più leggere.
Avvertiamo in queste pagine quell’umore negativo del senso di comunità, in cui ogni individuo è legato all’altro nel bene e nel male. La disgrazia, la colpa, il peccato, tutto ciò che pesa sulle spalle di un individuo può investire gli altri in un modo o nell’altro; per questo motivo la malavuci è come un grillo parlante che avverte del pericolo, dell’avvicinarsi della malasorte.
È invisibile questo male di vivere che avvolge il borgo di San Zefiro, non veste mai lo stesso abito. Ammalia, spaventa, violenta e spesso si diffonde attraverso il chiacchiericcio. Lo si combatte con ogni artifizio, ma spesso vince lui, perché il male di vivere è la prova che il mondo mai cambierà: c’è chi ha troppo e chi ha pochissimo; c’è chi deve sopravvivere e chi può vivere senza troppi problemi.
Ma ai contadini e agli emarginati piace sdrammatizzare. Perciò questa non è solo una storia da leggere, ma anche da canticchiare; tant’è che il narratore è un contastorie, che guardando da lontano questo paesello sospeso nel tempo, scopre che qui c’è qualcosa che è tipico del carattere umano: la paura per la diversità, per tutto ciò che è estraneo alla “normalità”.