Mai, mai più, avrei voluto…

Racconto di Antonella Perrotta

“E le terre di Sicilia, gli oliveti, gli agrumeti di papà diventati accampamento degli americani, e le bombe che cadevano dal cielo sul paese, e le luci che si chiudevano appresso agli scuri prima che facesse sera per non essere visibili dall’alto, e le fughe in campagna e la malaria curata da un ufficiale medico americano con le pillole di chinino avvolte nel velo della cipolla, tanto era amaro il chinino, anche più della cipolla, e le camionette di soldati americani, molti dalla pelle nera, che facevano su e giù per le strade – chi l’aveva visto mai un uomo dalla pelle nera? -, e il giorno in cui uno di loro mi afferrò sotto casa e, fra le lacrime, mi mostrò la fotografia di una bambina col fiocco bianco in testa – sua figlia, di sicuro, ché la guerra faceva male pure a lui, americano vincitore dalla pelle nera – mentre mamma gli gridava di lasciarmi andare e gli dava pugni sulle braccia, e le lattine calate dal balcone e riempite di caramelle e gomme americane – che buone, le caramelle americane! – ed io che imparavo a dire: Hello! Candy!, e i fascisti in fuga, gli stessi che avevano costretto mamma ad andare a dorso di mulo al mulino, la notte, per prendere un pugno di farina in più di quanta ce ne spettava e che avevano costretto sempre lei, mamma, a donare l’oro alla Patria per ripagare le sanzioni di guerra e a cucire i vestiti con le tende e col suo abito da sposa ché, a star appresso alla tessera, neanche le maniche sarebbero venute, e avevano manganellato il vicino perché aveva murato le giare con l’olio nello scantinato… E poi… E poi… E, mai, mai più, voglio vedere la guerra. Mai, mai più, avrei voluto vederla…”
Così, dice mia madre.

“E papà, conosciuto che avevo tre anni ché, in prigionia, li aveva trascorsi e di pochi mesi mi aveva lasciato per servire la Patria e l’ideale di una divisa in cui non credeva, ché fascista non lo era stato mai, e mamma che, dopo tanto silenzio, mesi di silenzio, aveva gioito alla scoperta di non essere vedova, ma piangeva di nascosto i suoi nipoti e li cercava per il mondo con l’aiuto della Caritas anche se, loro, per dispersi nel mondo erano dati, e lei e la zia che mi hanno protetto dalla bruttezza col sorriso, donne sole in un Paese in cui soltanto donne, anziani e bambini erano rimasti, e le terre in cui ci rifugiavamo ché, nell’estate del ’43, in paese erano iniziati i bombardamenti dal mare e dal cielo, mentre io mi nutrivo di latte materno annacquato e di quello offerto dal seno di una mammaredda, e di paura e coraggio sapeva quel latte e paura e coraggio, forse, mi sono rimasti dentro. E poi… E poi… E, mai, mai più, voglio sentire parlare di guerra. Mai, mai più, avrei voluto sentirne…”
Così, dice mio padre.

E le parole fuoriescono da un grembo gravido di ricordi dal sapore di vita passata che passata non è, ché ogni cosa cresce dentro, fecondata come seme, nutrita dal nostro stesso sangue, e finisce, prima o poi, col venire alla luce come creatura complessa, trasformata, ma sempre frutto di quel seme di cui porta l’impronta.

E penso alle sofferenze patite e alle speranze nutrite come figlie di letto, e alle aspettative della Ricostruzione, a quella sensazione che tutto, da quel momento in poi, sarebbe stato possibile e nel “mai, mai più…” di mia madre e di mio padre, Figli della Guerra, leggo il dolore, l’illusione, la disillusione e il senso di sconfitta.

Ma penso anche a me, a noi, figli dei Figli della Guerra, cui quella sensazione è stata trasmessa nelle culle col carillon, nei biberon igienizzati riempiti a latte senza lattosio addizionato con proteine. Noi, cui niente è mancato, nutrimento, istruzione, medicinali, svago e opportunità, e che niente abbiamo apprezzato perché il cibo sulla tavola era normale, l’auto, la televisione, i cellulari e il progresso erano normali, la libertà di pensiero e di azione era normale, normale, la pace sui nostri cieli, nelle nostre acque e nella nostra terra e, in questa normalità che ci apparteneva come diritto acquisito, abbiamo chiuso gli occhi e ci siamo crogiolati, sordi e ciechi alle guerre degli altri, alla miseria degli altri, alle battaglie umanitarie degli altri, che pure davanti ci sfilavano.

Ecco, noi, che tutto abbiamo avuto, diventiamo, soltanto oggi, consapevoli che tutto possiamo perdere e in questa minaccia stanno racchiuse le nostre paure. Le aspettative tradite fanno male, soprattutto quando si dà l’esito per scontato, così come fa male scoprire che l’amore non durerà per sempre nonostante per sempre sia stato pronunciato sull’altare e l’ascolto donato non ci sarà ricambiato nonostante, all’amicizia, ci avessimo creduto Ma un tradimento così non l’avevamo ancora provato.

E anche a noi tocca assaporare il dolore, l’illusione, la disillusione e pure il senso di sconfitta, anche se sconfitti del tutto, ancora, non ci sentiamo. Ma la nostra mente è acerba e il nostro pensiero standardizzato e le nostre mani inerti e la nostra volontà blanda e la speranza… la speranza, non sappiamo farla diventare pianta commestibile. E, come sospesi su una terra di mezzo, vaghiamo, con le ossa rotte, provando a schivare i buchi neri che inghiottono le nostre certezze e ricordano le nostre mancanze.

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