L’uomo si spezza, e talvolta si ammala per felicità

Una riflessione di Pina Labanca su “Un cuore debole” di Dostoevskij.

Cosa c’è dentro il nostro mondo, quello privato, della possibilità?

Forse, più di ogni altra cosa, c’è l’aspirazione alla felicità. Dietro stanno il sottobosco, il doppio, il ricatto, l’atteggiamento cristiano, la malattia.

Nessuno è uno. Siamo multiformi. Siamo, sentiamo, viviamo da criminali: e mettiamo al mondo delitti, più spesso proprio verso noi stessi.

Un cuore debole di Dostoevskij è un piccolo trattato di ingegneria analitica del dolore, del dolore che si provoca a se stessi e di quello che si causa agli altri. Tra riga e compasso c’è in mezzo l’uomo; certi eroismi, certe insonnie, certe ossessioni, certe cuffiette con l’orlo color ciliegia; ci sono rapidi crolli quando si deve, quando compaiono gli imperativi.

Per Vasja, la felicità personale dev’essere totale, deve comprendere, dev’essere ampia. Ecco… deve: un verbo necessario, senza il quale non c’è armonia, e a nulla servono i soccorsi di Arkadij. 

La pazzia di Vasja diventa umanamente etica, anzi, un imperativo morale: se non riesco a tenere in piedi tutto, allora non prendo niente.

Si impazzisce per infelicità. Si impazzisce per felicità ancora di più, ché questa diventa scopo e termine.

Dostoevskij disseziona senza farlo-materialmente: apre scuote sciabola stupisce taglia, sempre con occhi infallibili.

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