Luce di agosto. Faulkner e la “vita emarginata”

Luce di agosto. Faulkner e la “vita emarginata”

Recensione di Antonio Maria Porretti

Nel vecchio sud di William Faulkner, la luce dispiega tutta l’impetuosità e la veemenza della sua natura ambivalente, generando, mischiando e confondendo in egual misura, tra i suoi riverberi e bagliori, impulsi di vita e pulsioni di morte.

Ma in una terra che giace imperterrita nel torpore del suo passato, ostinata a rinchiudersi e a barricarsi dentro il santuario della propria memoria, mai stanca di onorare gli altari del pregiudizio e dell’odio razziale, del fanatismo bigotto, della più bieca grettezza e ipocrisia; quale significato può assumere il verbo vivere?

In quale modo lo si può coniugare, quando l’ossessione di una pretesa probità morale inchioda, paralizza e lascia deturpare, ogni respiro di compassione e pietà? Soprattutto se in quel Mississippi coltivato a campi di tabacco e cotone, predomina la religione dell’annientamento?

Per Lena Grove, Lucas Burch, Joe Christmas, Byron Bunch, Joanna Burden, il reverendo Gail Hightower, ciascuno archetipo di un destino marchiato dalla condanna sociale, condurre avanti la propria esistenza equivale a un costante esercizio di equilibrismo, camminando su una corda che si chiama emarginazione.

I loro giorni, non sono che brandelli di quella fune. I loro passi si inseguono, sfiorano, si intrecciano e aggrovigliano, prima di sparpagliarsi e perdersi nelle rispettive e implacabili solitudini che li attendono. In questa staffetta di condannati e capri espiatori, non è contemplato altro trofeo se non sopravvivere da indesiderati.

E la luce continua a piovere su di loro, scavandoli e prosciugandoli, per animare questa epopea della miseria umana; della malvagità distruttiva che ottenebra cuori e menti; delle illusioni che sorgono improvvise come fiamme, ma solo per diventare cenere; di coscienze per cui rimorsi e rimpianti sono solo beffe e disinganni che giungono in ritardo; della tenacia e della resistenza come unico possibile canto di vittoria.

E su questo piccolo mondo, troppo selvaggio e desolato, ogni luce si perpetua ininfluente e passiva. Muta testimone dallo sguardo mai sbiadito e che lascia ondeggiare – ma inutilmente – voluttà e languore, sfrontatezza, struggimento e riserbo. Una polifonia di aloni che tutto toccano e abbracciano, ma nulla amano davvero. Sarà forse per questo, se seguitiamo a credere che lì abbia dimora l’eternità?

Credo che Faulkner conoscesse già la risposta e che con “Luce di agosto” abbia voluto lasciarla in eredità.

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