Presenze minime. Federico Lotito e la vittoria dell’essenziale

Presenze minime. Federico Lotito e la vittoria dell’essenziale

Recensione di Martino Ciano. In copertina: “Presenze minime” di Federico Lotito, Secop, 2024

Tu non credi! Dite/rispondo che dio/è nelle mani che sollevano un peso/forniscono una possibilità/le mie mani non pregano/sostengono se volete

Le presenze minime di cui parla Federico Lotito sono parole che echeggiano nel vuoto della quotidianità, in quegli spazi in cui sembra che la vita non abbia bisogno di noi. Il passaggio umile e schivo del poeta testimonia il riconoscimento dell’altro, nonché quella comune sorte che non ci invita alla sobrietà degli istinti, ma all’eutanasia dell’ego.

È così che i versi minimali richiamano alla mente un altro esistenzialismo, quello della pesantezza dell’Esserci a tutti i costi. Minimo è il tempo di cui ognuno dispone, ma gli attimi diventano immensi per chi li vive, per chi accetta di starsene nei suoi privati ricordi, dichiarandosi osservatore di un meccanismo, la vita, di cui si muovono pochi, e neanche indispensabili, ingranaggi.

Lotito guarda a Bukowski e si lascia guidare dalla lezione di Carver. Loro, come pochi, hanno risposto alla quotidianità con una scrittura di essenziale “presa di coscienza”. L’opposizione ostinata non è eroismo, ma adattamento alla famelica tentazione di esistere troppo e al di sopra di ogni cosa. La sovraesposizione del proprio pensiero trascina in un “circolo vizioso”.

Il poeta pugliese prende le distanze dall’esercizio giornaliero dei “like” di Facebook, una pratica che ci fa raggiungere nuovi e inaspettati livelli di narcisismo. Lui infatti preferisce vivere lì fuori, essere pienamente suo, in favore di altro e di altri. Su tale aspetto, la nota di Angela De Leo, che chiude la raccolta, ci fa entrare nella sensibilità di Lotito, senza però invadere la sua intimità.

Come ben disegna Nicola Vacca, nella sua prefazione, la parola di Lotito è uno spartiacque tra il prima e il dopo, visto che siamo di fronte a versi che hanno il gusto di rappresentare un passaggio che cambia solo chi lo attraversa. Già questo aspetto delinea l’intento dello scrittore, che non riconosce l’universalità dell’esperienza, ma attesta la limitatezza dell’uomo, in quanto essere condannato a porsi troppe domande inutili, che non riceveranno mai delle risposte, a discapito della vita condivisa con sé stessi e con gli altri.

Tra queste pagine, che vanno lette più volte non perché contorte, ma perché fin troppo chiare, ci sono versi che raccontano di un felice spaesamento e di una lotta per uscire dal proprio “ego-dramma”. Sembrano quasi dirci, con inaudita crudezza, quanto ci sia bisogno di vivere con “lucidità” l’evento. Ma tutto ciò non dobbiamo farlo per abbracciare una qualche forma di stoicismo, una fede, ma solo perché le prove sono intorno a noi.

Alle scorie abbandonate/in piazzole di sosta affidiamo/tutta la nostra sconfitta/incapaci di separare secco da umido/mischiamo tutto agli occhi del mondo/lasciando in bella mostra/i sacchi neri della coscienza/consapevoli ci nascondiamo/nello scorrere del tempo/distanti da quello che volevamo/essere insegnando la bellezza/per salvarci avremmo dovuto essere/se solo avessimo voluto

 

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