Lo stesso nome

Lo stesso nome

Racconto e foto di Doris Bellomusto

Fossano 1935

Il mio destino è abitare il buio e al buio illuminare i ricordi, spegnerli all’alba e consegnarli al sole perché perdano corpo e luce, come i fichi, stesi a seccare sulle terrazze arse della mia terra amara e jastimata, non più mia.

Le mie giornate sono deserte di affetti, attraverso ore lente e interminabili, con mano incerta, traccio scarabocchi su un pezzo qualunque di carta, mi fanno compagnia la languida nostalgia dei tramonti e della luna piena, gli odori degli altri, le voci che fanno rumore e non hanno significato e il suono metallico e dispotico delle chiavi e dei cancelli.

Un perimetro esistenziale che misuro in un numero di passi scarso e povero come il mio destino.

Ho soffiato rabbia sul fuoco della mia gioventù e il mio tempo, in questi miserabili anni, continua a bruciare gli inganni che mi hanno trascinato in questa dimensione deformata, dove spazio e tempo si restringono e, infine, si annullano. Del tempo resta l’eco delle ore trascorse, il futuro non esiste; lo spazio non conosce unità di misura che non sia il mio passo corto, non c’è orizzonte.

Io ho perso peso e volume, forse, vivo in un disegno sbilenco tracciato dalle mani incerte di un bambino. Eppure è forte l’odore degli altri, è forte il suono metallico e dispotico delle chiavi e dei cancelli, forti sono le voci che fanno rumore e non hanno significato. Sono ancora nel mondo, eppure non gli appartengo, né il mondo appartiene a me. Non ora che si è tinto di nero.

Avere vent’anni è avere il vento nel cuore, camminare senza chiedersi dove e credere buono il destino.

Ho creduto di poter fare la differenza, ho creduto di poter insegnare giustizia alla mia gente, ho creduto che bastasse soffiargli addosso la verità per strappargli dalla pelle l’inerzia, ma l’inerzia è più forte di qualsiasi illusione e io sono qui con la rabbia che mi rode il cuore.

“Abbasso la guerra”, l’ho gridato forte, per tre volte, da dietro le sbarre, a mala pena u sacciu adduv’è l’Etiopia, ma io abbasso la guerra, io la guerra la faccio solo ai fascisti e adesso, con altri nove sono stato condannato a tre mesi di isolamento ed eccomi qui, consumato dal tempo, come cera che si scioglie e si incrosta.

Nel buio dell’isolamento, mi lascio bruciare gli occhi dal sole e dalla salsedine e sento il nome del mio nemico pronunciato con orgoglio dai miei paesani e fatto riecheggiare di paese in paese, dal Tirreno allo Jonio, da Cosenza a Reggio Calabria – Michele Bianchi – il “quadrumviro” della “marcia su Roma”. E’ morto, non ha più potere, ma chi raggia, quanto potere ha avuto in vita su quelle misere anime erranti fra la terra e il mare di Belmonte, e come avrei potuto io, misero illuso, restituire alla mia gente il senso della parola libertà?

Libertà è parola abusata, per molti è il privilegio di poter disporre del lavoro degli altri e in suo nome i patruni hanno presto obbedito al Duce, i garzuni, come me, poco avevano da perdere e qualcuno si è lasciato tentare dalla disobbedienza.

Io, a dirla tutta, figliu di patruni, garzuni lo sono diventato, a poco a poco, a mano a mano, giorno dopo giorno, accorgendomi dei soprusi e degli abusi di mio padre a danno dei garzuni che si spaccavano la schiena nelle sue terre.

Sono nato in un giorno di sole e di vento, era il 3 Agosto del 1902 e, mentre io venivo al mondo, mia madre se ne andava; “curu vientu è vulata mammata” mi hanno sempre raccontato, è volata via senza salutare nessuno, lasciando intorno tracce di sangue, rosso e vivo come i pomodori che aveva raccolto, col sole addosso e la rabbia nel petto, fino a che ne aveva avuto la forza. Mia madre non era figlia di patruni, mi ha messo al mondo per errore, non per amore, l’errore di lasciarsi tentare da mio padre e credere che dalle voglie del corpo potesse nascere l’amore, quello delle favole.

Venuto al mondo così non poteva andare diversamente questa storia storta.

Solo una piccola fortuna ho avuto, i miei nonni paterni, in mezzo al disamore e al rancore d’avere un nipote figlio di malarazza, hanno avuto orgoglio e non hanno accettato che a crescermi fossero due poveri cristi che tiravano a campare e mi avrebbero cresciuto a pani siccu e ficu ‘ndiani.

Nelle case dei patruni non manca mai niente, c’è chi porta il latte fresco di capra, chi la ricotta di pecora, chi cirasi e fragulicchie, chi non ti fa mancare pane e suprissata, è un incessante vai e vieni di paesani in cerca di benevolenza, perché in paese tutto si fa e si disfa per volontà di chi ha le terre e cummanna.

Ho sempre mangiato bene, ho sempre camminato con le scarpe ai piedi e, soprattutto, sono cresciuto fra libri da leggere e carte da scrivere (in primis l’elenco di debbituri) e ho frequentato il “nobile” liceo di Cosenza, guardatu stuortu, per la mia discussa natura bastarda, da compagni e professori.

Cresciuto in mezzo a patruni e garzuni, ho sentito addosso il disprezzo degli uni e degli altri, figliu di malarazza avevo imbastardito il buon sangue di famiglia, eppure la malarazza di garzuni mi respingeva come un corpo estraneo, cosa ne sapevo io della fatica, del sudore, del sole che ti sicca l’arma a menzujuornu?

Avevano ragione, non ne sapevo niente. Cosa sia la fatica, il sudore, il sole che ti sicca l’arma a menzujuornu l’ho imparato a vent’anni, quando la mia misera storia storta si è impigliata nella storia grande di quest’Italia che mi respinge e mi sputa, dopo avermi roso cuore e muscoli, come si sputano i nuozzuli, dopo aver affondato i denti nella polpa rossa e dolce d’icirasa.

A vent’anni ho creduto che la mia gente sapesse riconoscere gli inganni della storia, che chiama libertà la tirannide, e non sta mai dalla parte dei cesaricidi. Io non volevo cedere all’inganno del “quadrumviro” che prometteva, a destra e a manca, mare e monti e della Sila voleva fare il giardino dell’Eden perduto, ma cu cimentu.

La notizia della Marcia su Roma trionfava sulla bocca dei miei paesani e io, invece, sentivo na raggia ‘mpiettu per quello schiaffo all’Italia o, per essere più esatti, a quello che dell’Italia restava ancora in piedi, ma barcollando. L’Italia agli occhi miei era ed è nu gigante curi piedi di crita.

Quel 28 Ottobre del 1922 io cominciai a meditare vendetta. Non mi piacevano le camicie nere dei patruni, volevo vendicare tutte le schiene spezzate dei poveri garzuni, e, in primis, volevo vendicare la morte prematura di mia madre. Lei mi abita sottopelle, nelle viscere, nei battiti del mio cuore inquieto e nel momento della ribellione io sono nato ancora una volta, adesso sono bastardo per scelta e non per destino. Avrei potuto trovare pace solo nella disobbedienza a quella nobile razza di patruni che chiamava me Michele Malarazza, per distinguermi dall’omonimo Michele Bianchi, il “quadrumviro”, che in paese dettava legge senza bisogno né di esserci né di proferir parola.

Dalle terre della nobile razza Bianchi ho mosso i primi passi storti che mi hanno portato fino a qui. Era il giorno di tutti i Santi e io, insieme ad altri poveri cristi che, come me, non avevano niente da perdere, ho profanato la proprietà privata per raccogliere quel che restava delle tante castagne destinate ai mercati di Cosenza, Paola, Amantea. Quel giorno, speravo che ci fosse spazio anche per Santu ‘Ngringulu, l’unico santo a cui ho fatto voto in vita mia, un santo nato dalla fantasia popolare, il santo di chi va controcorrente e disobbedisce, il santo delle pecore nere, ma Santu ‘Ngringulu con me non perse tempo.

Era un giorno mite, sentivo addosso l’aria buona dell’autunno e mi penetrava ‘nta l’arma l’adduru du mari portato dal vento, non fu mite l’atteggiamento di minaccia da parte delle guardie che subito arrivarono a fermare il nostro raccolto. Come fossimo picciriddri dispensarono una sberla in pieno viso a ciascuno di noi, i poveri cristi che mi accompagnavano stettero muti e fermi, io alzai le mani e la voce e fui arrestato immediatamente, senza perdere tempo né parole.

E dall’adduru du mari all’adduru du cantaru il passo è stato breve.

E’ stato il primo dei miei mille giri di giostra, jastimati, ma attraversati senza abbassare né la guardia né lo sguardo. Da sempre, sono un cane che si morde al coda, un bastardo, senza patruni, pronto ad aggredire chiunque voglia attaccargli al collo un guinzaglio o tappargli la bocca con una museruola.

Non voglio ricordare ogni passo falso, non voglio ricordare né come né quando sono arrivato qui, lontano dalla mia terra, lontano quanto basta per non avere nessuna possibilità di dare notizie o cummanni ai poveri cristi che mi conoscevano e un poco di bene, forse, per me lo sentivano, ma leggero, leggero come si può sentire addosso u vientu da marina.

E come vento è volato via il mio tempo, ma vento di mezzogiorno, scirocco ca ti sicca l’arma. Ho vissuto qualche momento di tregua, brevi parentesi di vita e fatica, fame e sudore, illusioni e amarezza, parentesi che si chiudevano puntualmente con un atto di ribellione o disobbedienza; era un atto di libidine “gridare” sui muri del mio paese tutto l’antifascismo di cui ero e sono capace, mi scialava se avevo occasione di sputare in faccia a nu patruni tutta a raggia ca avia ‘mpiettu, e fra la fatica del tirare a campare e la provocazione all’orgoglio fascista mi sono guadagnato il mio destino di poveru cristu ed è così che ho fatto pace con la morte e con la vita.

Ma di tutte le parentesi di bene che ho aperto e chiuso ce n’è una in cui mi piace rifugiarmi, è lì che mi riposo quando questa storia si fa troppo storta per essere sopportata.

Il 28 Ottobre di tre anni fa (decimo anniversario della Marcia su Roma) il corpo del “quadrumviro” è stato traslato nell’enorme mausoleo funebre costruito sul colle Bastia. Il mausoleo è stato commissionato direttamente dalla segreteria del partito, la supervisione dei lavori è stata affidata alla nobildonna Maria Elia, figlia dell’ammiraglio Giovanni Emanuele Elia.

A Marchisa conosceva molto intimamente il defunto Michele Bianchi e proprio per questa ragione hanno affidato a na fimmina l’incarico di supervisore dei lavori. Io mi misi ‘ncapu di vendicare la mia rabbia sul suo corpo, ma come volpe astuta e seducente e non con la brama violenta dei lupi della Sila, quella Sila ombrosa, verde e generosa che ha fatto da cornice al mio quadro.

A Buturo si trova la torre della Marchesa, residenza della “Silana Domina”, cussì a chiama u poeta ca piacia ari fascisti, Gabriele D’Annunzio, ca sì e no da Sila canuscia sulu a casa da Marchisa, ma non il freddo, né le strade impervie, né la gente, avara di parole, ma generosa di pane e companatico, di canti e di preghiere. Io stesso non ne sapevo niente, l’ho conosciuta a poco a poco, fra la semina e il raccolto, dall’inverno all’estate in attesa che la preda si avvicinasse alla trappola.

Ciuotu fino al midollo, non mi credevo capace di tessere una ragnatela così intricata da restarvi impigliato io stesso, eppure credo di aver intravisto la felicità proprio in quell’intrico contorto di emozioni nuove, costruite con mente lucida e pronta all’inganno, ma vissute con cuore traboccante di desideri, fino a lì, ignoti.

A Marchisa arrivò a Buturo in un caldo giorno di Giugno di due anni fa, la aspettavo prendendomi cura del suo giardino, grazie a nu cristianu di nero vestito conosciuto all’osteria. Stu fitenti mi aveva fatto avere il lavoro in cambio delle quotidiane bevute che gli offrivo da mesi e mesi. Jastimava chira cammisa, nivura cumi a menzannotti, ad ogni prosit, quella camicia vestiva a lutto l’Italia intera, ma dava a me l’occasione di avvicinare piano piano la mia preda e così facevo buon viso a cattivo gioco e assecondavo la sorte. Dovevo avvicinarmi alla marchesa e fare in modo che, almeno per una volta, per la breve durata di una villeggiatura, il sottoscritto Michele Bianchi, detto Malarazza, avesse lo stesso destino del defunto Michele Bianchi, detto il “quadrumviro”.

Volevo conoscerla, avvicinarla con astuzia e dolcezza, lentamente spogliarla dei suoi vestiti da nobildonna, consumarla, rubarle, a poco a poco, l’anima, l’oro e l’argento, poi chiudere la parentesi e ricominciare il gioco della mia bastarda identità. Così ho fatto, ma ho perso l’anima anche io, mi sono consumato anche io, e il gioco della mia bastarda identità sembra essere finito qui, sugnu persu e sulu molto più di quanto non lo fossi prima di conoscere Maria.

Al suo nome di Madonna non corrispondeva il suo destino di donna audace e forte, istruita e determinata a costruirsi la vita a sua immagine e somiglianza, fimmina fascista, cara al Duce e al popolo, invidiata dalle pacchiane della Sila, come dalle signore e signorine di Cosenza, Catanzaro, Buturo, Sersale, Sellia e oltre, fino a Roma. Io fimmine così non ne avevo mai viste e rimasi scimunìtu dal primo istante.

Quando scese dalla carrozza, levai il cappello e l’aiutai a scendere, lei sollevò gonna e sottogonna fin sulla caviglia; il diavolo si nasconde nei dettagli, l’eleganza di quel gesto mi futtìu.

Mi sembra lontanissimo quel giorno, distante da questo buio non anni, ma secoli, i ricordi non mi emozionano, mi paralizzano, rivedo la mia storia come fosse na commedia recitata, è come se non mi appartenesse, mi lascia muto, col cuore duro come pietra e i muscoli tesi come corde di chitarra stonata.

Non dissi più del necessario, “Buongiorno, Donna Maria, benvenuta in Sila, la gente l’aspettava ‘ngloria, a quanto pare la vostra presenza porta una ventata di gioia a Buturo…”, non mi presentai neppure, ero uno dei tanti garzuni a servizio, quindi, con l’ansia di un bambino che ha fretta di tornare fra le braccia della mamma, tornai alla terra e ai pomodori che stavo raccogliendo, prima che lei arrivasse, pensando a mia madre e jastimmanu. Non immaginavo quanto, a volte, sa essere crudele l’ironia della sorte; mamma non aveva sopportato la fatica del parto, logorata dalla fatica di aver raccolto pomodori a quintali, sottu u suli, fino a un attimo prima del travaglio, io, logorato dalle sue stesse fatiche, non avrei sopportato il travaglio dell’amore e tutti i demoni maligni che l’accompagnano.

Ancora una volta garzuni a servizio di nobili patruni, sudavo sangue, rabbia e illusioni, posseduto da pensieri audaci, la vedevo ovunque, anche quando non ce n’era traccia, toccavo la polpa soda dei pomodori immaginando i suoi seni bianchi e generosi, altezzosi come lei, che camminava senza guardare in faccia nessuno, persa nei suoi pensieri e sola nei suoi desideri, proprio come me.

Accampavo scuse per avvicinarmi e sentire l’adduru i fimmina istruita, aveva addosso l’odore dei libri che io non leggevo più e mai più leggerò, addurava di città sconosciute, di liquori e caffè, di mandorla e limoni. Indossava il profumo delle vite possibili che io avevo allontanato da me scalciando come un mulo.

Randagio, sprovveduto nelle tasche e nel cuore, per troppo tempo, ho portato in giro le mie ossa a zappare terre d’altri, lì, nella terra fertile di Maria mi sentivo a casa, era na pazzia.

Buturo 1933

Un garzone fra i tanti, con un nome ingombrante e il destino avverso, mai avrei immaginato le conseguenze di un sorriso, di una distrazione, di un moto di compassione. Io sono sempre stata dritta, non mi sono mai concessa un gesto o una parola che non fossero ragionati, opportuni, giusti. Ho faticato a costruirmi la reputazione che ho e mi fa rabbia aver ceduto così facilmente a questa beffa del destino.

Era uno fra tanti, ma c’era nei suoi occhi la luce stregata di chi nasconde segreti, di chi la sa lunga e in silenzio, con la coda dell’occhio sa carpire i segreti degli altri, con uno sguardo obliquo quell’uomo, pronunciando il suo nome, m’ha fattu a magària.

– Piacere, Michele, Michele Bianchi – ho sentito un brivido percorrere la mia schiena dritta e ho sentito il cuore vuoto battere come fosse un tamburo, un tamburo di burro che al sole dei ricordi si è sciolto come neve al sole.

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