“Licenzio la filosofia”. Giovanni Papini e l’agire
Articolo di Martino Ciano
Il crepuscolo dei filosofi è un libro del 1906 che è quasi sparito dalla circolazione, nonostante qualche casa editrice abbia provveduto a ristamparlo. Resta il fatto che di quest’opera incendiaria, ironica, ricca di spunti riflessione poco si parla e per nulla si accenna. Papini porta con sé un’eredità pesante, tra cui la sua adesione al Fascismo, ma ciò non giustifica il silenzio calato sul pensatore fiorentino che il critico letterario Luigi Baldacci definì l’unico filosofo futurista. Nel 2022, l’opera è stata ristampata in una nuova edizione dalla casa editrice Gog; io mi sono affidato all’edizione del 1976, pubblicata da Vallecchi.
Un mondo ideale ma pieno di contraddizioni
Oltre a essere un topo di biblioteca, Papini è un abile polemista. Per lui arte, religione, scienza e filosofia sono escamotage usati dall’umanità per creare mondi alternativi, luoghi di incanto, di certezze, da affiancare al mondo reale così ostile, freddo, cinico e indifferente. Più della religione, la filosofia cerca di narcotizzare l’uomo. Infatti, se la religione rimanda al futuro, a qualcosa che verrà e in cui bisogna aver fiducia, la filosofia prova a dare all’umanità quella verità ultima che edifichi qui, ora, nel presente e nel reale, il migliore dei mondi possibili. Fatto sta, che questi sistemi si ripiegano su loro stessi, si nutrono delle contraddizioni dei loro creatori, non spingono all’agire e all’azione. Peggio ancora fa la scienza con i suoi imperativi ipotetici, i quali donano certezze passeggere, che vengono subito ferocemente criticate, ribaltate da altre teorie, sconfessate indegnamente. Insomma, Papini ne ha per tutti e lo fa scandagliando opere e vite dei pensatori.
Un processo sommario
Il piccolo borghese Kant, il vecchio e indolente Schopenhauer, il debole Nietzsche, il confusionario Hegel, i preti del positivismo Comte e Spencer. Papini dà vita a una parodia filosofica, porta al collasso le strutture concettuali di questi filosofi, dimostrandone le evidenti contraddizioni. Kant dice che l’uomo può conoscere solo i fenomeni e che il noumeno è qualcosa di ignoto, eppure di questo ignoto ne parla con dovizia di particolari, quasi fosse casa sua. Hegel è invece il fautore di una filosofia contraddittoria a priori, sorretta da una prosa incomprensibile, in cui egli stesso si perde. Inventa l’Idea, questa entità che aleggia su tutto e su tutti, che lotta contro sé stessa e contro la logica. Essa appare come un pensiero che si pensa, che a volte si pensa da solo, mentre in altre occasioni è pensato; quasi provasse piacere a stuzzicarsi, a mettersi in crisi. Il risultato però è che, alla fine, nessuno capisce cosa sia davvero questa Idea, nemmeno Hegel. Poi c’è Schopenhauer, un indolente nato già vecchio, il quale mischia filosofie diverse con l’obiettivo di persuadere gli uomini a seguire una vita di rinuncia, di attesa, senza emozioni; un po’ come ha fatto lui. Comte e Spencer invece sono a volte positivisti, a volte spiritualisti, a volte hanno fiducia nel presente, altre volte solo nel futuro. Comte, padre della sociologia, spinge a una sorta di altruismo basato su leggi inoppugnabili, in cui l’individuo arretri sempre più, fino a dissolversi completamente. Va favorita la società, vanno banditi gli egoismi, gli istinti. La società è un unico corpo governato da meccanismi oscuri che vanno scandagliati, categorizzati; pertanto, comprese le leggi regolatrici di questi meccanismi, si arriverà alla società perfetta. Nietzsche anche è uno che, nonostante la sua rabbia e la sua voglia di rivalsa, non mette mai in pratica ciò che scrive. Se la prende con ogni istituzione, con l’etica, la morale e la religione, ma è lui il primo debole che spera nell’avvenire e rimanda sempre la sua rivoluzione, come coloro che hanno paura della vita.
Un verdetto
Tanto ancora avremmo da dire su questo libro che, di sicuro, non va preso alla lettera in molti suoi passaggi. Molto avremmo da obiettare a Papini, ma è la genuinità della proposta che fa la differenza e che dà a quest’opera quella originalità che, purtroppo, in tanti testi critici non si incontra più. Come scrisse Papini nel 1919, in occasione della terza edizione del libro, il suo errore fu quello di non aver usato un linguaggio oscuro, che demolisse dolcemente questi mostri sacri del pensiero, perché agli accademici poco piace la chiarezza e la schiettezza e, forse, la fortuna di certi filosofi del passato è proprio dovuta alla loro incomprensibilità. Di sicuro, molti, compreso io, non saremo mai d’accordo con Papini sull’inutilità della filosofia, ma a distanza di quasi centoventi anni dalla pubblicazione di questo libro, non se ne può che apprezzare il tono, la voglia di approfondire, la necessità di depurare certi concetti dalle impurità interpretative; tutte cose che ormai l’intellettualismo contemporaneo ha perso per strada, in favore di un pensiero debole, pigro, amante del nozionismo.