Libro delle bestemmie. Nicola Vacca e “l’illusione del dio che esiste ma che non c’è”

Libro delle bestemmie. Nicola Vacca e “l’illusione del dio che esiste ma che non c’è”

Recensione di Paolo Fiore. In copertina: “Libro delle bestemmie”, Marco Saya edizioni, 2023

“Se una lezione ho imparato riguardo a questa cosa strana che è la vita è che conviene viverla come se… Come se fossero reali tutte le larve che ci siamo inventate (amore, amicizia, gloria, Dio) di cui si maschera il niente”.

Così scrive Gesualdo Bufalino in una frase che Nicola Vacca riporta in esergo al suo Libro delle bestemmie, Marco Saya edizioni. Trascorriamo la nostra esistenza a vivere come se il mondo delle nostre finzioni coincida con il mondo tout-court. Poiché, per dirla con Jaspers, ogni visione del mondo tende, pur sempre, a farsi mondo, diventando univoca, totalizzante, ammaliandoci e illudendoci della sua verità. E quando sveliamo la finzione, vorremmo separare l’oggetto dal soggetto, l’invenzione dall’inventore; e se alziamo la voce verso la creatura è perché a comprendere bene sia il creatore.

In questo gioco di specchi, la figura contro cui inveiamo non è altro che il nostro riflesso in essi. Chi vediamo, allora, davvero in quello specchio se non la proiezione ipertrofica di noi stessi? Di qui, quella rabbia inestinguibile, poiché infrangere quell’immagine significa infrangere lo specchio stesso in cui possiamo riconoscerci guardando. E allora probabilmente “Ci aspetta / una lunga stagione di idoli / venerati per nascondere la paura / di noi che finiremo per spegnerci”, come scrive Nicola Vacca nella poesia che porta un titolo emblematico “Oscurare dio”. E la necessità di quest’oscuramento è chiarita nei versi finali: “Oscurare dio / per tornare alla luce / [proprio] un gioco blasfemo che deride / la vigliaccheria dei devoti”.

Poiché non basta uccidere dio per sostituirlo implicitamente con se stessi, come ben comprende Ivan, uno dei fratelli Karamazov di Dostoevskij, in quanto ci si carica addosso non solo il peso della libertà, ma anche quello ben più pesante dell’interdizione e del divieto. E allora quell’uccisione ne implica una cascata infinita in un effetto domino che, mentre abbatte l’ennesimo simulacro, ne vede rispuntare il prossimo in un tiro-a-segno da luna-park, in cui le sagome, in modo inquietante, ritornano verticali contro l’illusione di ogni fucile giocattolo della nostra mente.

E quando l’essere umano intuisce che, nell’istante in cui sta puntando la canna del fucile contro il simulacro di dio, l’obiettivo è in realtà se stesso, allora il grido di dolore diviene straziante e si trasforma in bestemmia. Il cecchino dei versi di Nicola non è solo l’assassino ma anche la vittima di questo massacro, per questo possiede tutta la legittimità del ruolo e non potrebbe essere meno spietato nella sua esecuzione. Non è però un ruolo terzo che non riguarda ciascuno di noi poiché, al contrario, si tratta del “cecchino che ci portiamo dentro” per il quale “anche oggi è giorno di mattanza”.

Infatti, come scrive ancora, “non c’è nessuna verità / oltre la siepe del disincanto”. Il “qui c’è puzza di dio” gridato da Carmelo Bene, che Nicola Vacca riporta nella sua poesia, ha l’odore acre della carne bruciata sui roghi dei martiri eretici del libero pensiero, da Ipazia di Alessandria fino a Giordano Bruno, e di tutti i capri espiatori di ogni tempo vittime di ideologie sbandierate come nuovi umanesimi e rivelatesi invece trappole liberticide. Bisognerebbe forse allora invertire i ruoli per trasformare quel senso in odore. Nel poema di Gilgamesh, ad esempio, la scena del diluvio si chiude con queste parole: “Quindi, portai fuori un’offerta e ai quattro venti feci un sacrificio. Allora gli dèi riconobbero il profumo dell’incenso e, poiché avevano già nostalgia degli uomini, accorsero attorno al battello”. Gli dèi, allora, proiezione imaginale degli uomini, come un déjà-vu proustiano, annusando quell’odore noto, si ricordano della loro origine (l’uomo) e ne provano nostalgia (dolore-della-lontananza) ritornando verso loro stessi.

E allora, di ribaltamento in ribaltamento, dovremmo poter considerare, accanto all’apocalisse canonica del Nuovo Testamento, l’apocalisse laica lucreziana che termina con il racconto della peste di Atene, anticipatrice di secoli della riflessione di Albert Camus, monito e metafora per noi della fine del nostro pianeta se non invertiamo velocemente la rotta. Non è un caso se Lucrezio e il suo De Rerum Natura, che smontava la pretesa di ordine cosmico e politico di Roma, fosse condannato all’oblio soppiantato dal più funzionale e politically correct Kosmos stoico di Seneca con il suo logos in odore di religione. Pertanto, la pretesa è quella di un ordine divino che richiede riconoscimento e nominazione. Ma quest’ultima implica la dimensione della relazione e dunque della conoscenza.

Se il Nome è esperienza di relazione, la reciprocità è irrinunciabile. Se, dunque, questa manca, non c’è neppure relazione e quel nome resta sconosciuto. Forse le parole più mirabili, in tal senso, sono quelle di Leonard Cohen nella sua Hallellujah, nella quale un re Davide confuso si rivolge al dio ebraico “Dici che ho pronunciato il nome invano / Ma se non lo conosco nemmeno il nome!”. Una doppia solitudine ed insieme la presenza di un’assenza per “l’illusione di un dio che esiste ma che non c’è”, poiché la letteratura ci insegna che tutto ciò che è narrazione esiste davvero.

In definitiva, “Si fa fatica a raccogliere la solitudine di dio” come scrive Nicola Vacca nella poesia La grande fossa e proprio davanti a lei, nel giorno finale di ciascuno, davanti al plotone di esecuzione come direbbe Marquez, ogni uomo dovrebbe potersi ricordare di quel suo lontano giorno in cui il proprio padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio e a constatare che, probabilmente, quel solo ricordo vale una vita.

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