L’esercizio della filosofia di Lucio Saviani

Recensione di Nicola Magliulo

L’esercizio della filosofia (Moretti e Vitali 2021), l’ultimo lavoro di Lucio Saviani, che comprende anche un poemetto scritto da Pasquale Panella, è un libro ricco e articolato, con una pluralità di riferimenti ad autori diversi che vengono citati e interrogati per riattraversare la tradizione filosofica e trovare in essa le faglie e gli spunti per una pratica filosofica adeguata al tempo complesso e difficile che stiamo vivendo. Del resto da sempre i filosofi hanno riflettuto sulla filosofia fino a tematizzare la possibilità stessa della fine della filosofia.

Saviani ricorda come la filosofia nasca dal thauma, dalla meraviglia e dal terrore, e dunque sia fin dalle origini una forma di pensiero sollecitata dalla tonalità emotiva fondamentale del nostro essere nel mondo. La pratica filosofica, muovendo da essa, vuole conoscere e pervenire a ciò che davvero è reale, e dunque non può che misurarsi anche nel nostro tempo con la pandemia che ha generato e diffuso appunto paura, terrore. Il libro è stato scritto nella fase più dura, la prima, dell’epidemia, per cercare nella peripezia in cui siamo precipitati tracce feconde per un modo di vita che fosse all’altezza della tremenda sfida; diversamente il nostro tempo sembra invece affidarsi solo alla scienza e alla tecnica per affrontare e trovare rimedi al terrore, alla malattia e ad ogni problema.

Saviani mostra come, pur nella consapevolezza dell’efficacia dei rimedi approntati dalla ricerca scientifica, sia ancora necessaria una pratica filosofica per aver cura delle ferite che la pandemia ha prodotto nella psiche di individui e comunità, nel tessuto sociale e relazionale privato e pubblico.

In questo senso comprendere il nostro tempo, e ricollocare in esso il ruolo della filosofia, è compito ineludibile, e implica la capacità di andare a fondo, di ripensare e rimettere in discussione categorie e tesi alla luce della crisi che stiamo attraversando, oltre un approccio superficiale e limitato alla mera contingenza del presente. Krisis non significa infatti mai solo patire un’esperienza negativa o essere condannati ad un irreversibile declino, ma anche sempre l’occasione da utilizzare per un possibile nuovo inizio che non si limiti a ripristinare la condizione precedente ad essa.

Per questo Saviani in molteplici pagine del suo libro approfondisce l’indagine intorno a categorie come: incertezza, convalescenza, che appaiono cifre esemplari di quanto stiamo vivendo; in particolare appare necessario imparare ad indugiare in questi stati intermedi, transitori, a farne buon uso.

Tuttavia porre l’accento su di essi non si traduce in una mera inversione concettuale: l’autore non oppone banalmente certezza e incertezza, finito a infinito e così via, ma si sforza di oltrepassare un pensiero solo logocentrico e che ritiene di possedere verità assolute per dare dignità e voce ai lati precari, contraddittori e sofferti dell’esistenza. Anche le pagine del libro in cui si interrogano forme di pensiero e di espressione artistica, e più in generale quel silenzio non insignificante che si mostra al di là del fluire discorsivo, indicano il bisogno dell’autore di restare fedeli a tutta la gamma delle umane esperienze.

Vivere è essere capaci di sopportare quella mancanza che genera desiderio, e nel libro la riflessione su di essa si sviluppa in riferimento alla concezione erotica platonica, a quel mito che narrava di Eros figlio di Penìa e Poros, e che rappresentò già una rivoluzione, nella cultura greca, perché poneva la sua non eterea origine nella povertà.

Saviani evidenzia dunque come anche la relazione d’amore debba costitutivamente misurarsi con la mancanza e la distanza; non quella in modo tristemente emblematico chiamata sociale durante la pandemia, ma piuttosto l’esperienza che ci consente di amare l’altro senza ricondurre a sé in modo possessivo la sua alterità. Noi dobbiamo misurarci anche con i lati in ombra del nostro e dell’altrui esserci, sottolinea l’autore, che vanno rispettati senza pretendere di forzarne il limite e di penetrarli per trarli alla luce e possedere così ogni anfratto dell’amato/a.

Saviani dedica le ultime pagine del suo lavoro ad una riflessione sul mito di Orfeo ed Euridice, facendo riferimento tra gli altri ad alcuni versi dei Sonetti ad Orfeo; pochi poeti come Rilke hanno pensato,

nelle loro opere, i nodi della relazione erotica e la ricerca di nuovi modi di amare che lascino essere la libertà degli amanti. Il filosofo napoletano Vincenzo Vitiello, nel suo I tempi della poesia, scrive che: “ Rilke intravede la strada là dove dice: amare vuol dire essere soli”. E il poemetto di Pasquale Panella, intitolato Orfeo, un cantante, rimedita il mito con lucido e ironico disincanto e lo sguardo rivolto ai nodi e alle aporie delle relazioni d’amore contemporanee.

Tutto quanto nel libro riguarda questa concezione dell’amore, vale analogamente per la pratica filosofica che l’autore suggerisce. I filosofi non sono i sapienti, possessori di una verità assoluta ma la loro ricerca è generata dal desiderio che nasce da una mancanza, in un senso però differente dallo spirito del nostro tempo che la concepisce solo come vuoto, tensione per bisogni insoddisfatti che vanno esauditi attraverso una continua ricerca di nuovi oggetti.

Il richiamo che appare nelle pagine del libro al celebre motto di Socrate: so di non sapere, al suo metodo ironico e maieutico, significa davvero un invito per l’intelligenza a misurarsi in modo umile con i nodi aporetici dell’itinerario filosofico. Del resto, come scriveva Kafka, non possiamo fare a meno di domandare e poniamo domande anche quando non ci attendiamo necessariamente una risposta esaustiva.

Ecco perché anche l’incertezza, cui sono dedicate pagine importanti nel testo, appare esperienza vitale e non solo un’angosciosa oscillazione da mettersi alle spalle rapidamente. Incerto appare allora il tempo fruttuoso in cui ci si può decidere di generare un futuro diverso da quanto è stato nel passato. Non dunque una concezione filosofica della storia in cui il presente e il futuro vengono dedotti necessariamente dal passato ma l’istante (kairòs) che è la chance che permette di voltare pagina, di far accadere un evento imprevedibile; lacuna che interrompe l’eterno ritorno delle stesse cose sempre, il manifestarsi di quanto già destinato.

Saviani inoltre si confronta con alcune questioni cruciali della nostra epoca, con nodi storico-politici come il ruolo degli intellettuali nelle democrazie, o l’dea e i compiti di un’Europa unita e aperta al Mediterraneo, che non si muraglia in modo inospitale; paure e chiusure che forse anche la tendenza demografica, una popolazione sempre più anziana, aiuta a capire.

La stessa idea di una libertà declinata in modo individualistico e irresponsabile, indifferente a tutto quanto travalichi la caverna egoica di ciascun soggetto, che sembra si sia affermata anche durante la pandemia con l’irragionevole pulsione a salvarsi da soli, appare tra i bersagli polemici del libro.

E anche contro questa deriva solipsistica, la ricerca di Saviani prova a ricostruire il tessuto di un’autentica amicizia, di una pratica filosofica che abbia al suo cuore una capacità di philìa. Se la finitezza della nostra condizione è tale da doversi confrontare, come si è visto, con situazioni limite, con una costitutiva precarietà, allora l’esigenza di relazioni condivise, di un cum-patire le reciproche fragilità, diviene l’unica possibilità di costruire un tessuto comune, un’umana davvero umana esistenza.

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